Temere la felicità: può sembrare un paradosso, eppure è una realtà psicologica concreta che prende il nome di cherofobia. Chi ne soffre non riesce a vivere pienamente i momenti di gioia, bloccato dall’idea che ogni attimo felice porterà con sé inevitabilmente un evento negativo. Un fenomeno ancora poco discusso, spesso sottovalutato o frainteso.
Per fare chiarezza sull’argomento, su come si riconosce e si affronta, è intervenuta ai microfoni di NewSicilia la Dott.ssa Valentina La Rosa: psicologa, psicoterapeuta, assegnista di ricerca e docente a contratto di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Catania.
Conosciamo la cherofobia: l’intervista
- Che cos’è esattamente la cherofobia e da cosa si distingue rispetto ad altri disturbi dell’umore o d’ansia?
“Per cherofobia si intende una forma di paura o rifiuto nei confronti della felicità. Non comporta necessariamente l’essere sempre tristi ma l’evitare consapevolmente situazioni piacevoli perché considerate pericolose o destabilizzanti. A differenza della depressione, dove manca la capacità di provare gioia, nella cherofobia la felicità viene vista come qualcosa da cui difendersi. È importante sottolineare che la cherofobia non è classificata come un disturbo mentale nei manuali diagnostici ma è comunque un’esperienza reale e significativa, spesso collegata a esperienze traumatiche o a un forte bisogno di controllo”.
Quali sono i segnali più comuni che possono indicare la presenza di cherofobia in una persona?
“Chi vive questa condizione tende a evitare situazioni che potrebbero generare emozioni positive, come feste, viaggi, successi personali. Può provare disagio quando gli altri sono felici o pensare che “se qualcosa va troppo bene, poi andrà sicuramente male”. A volte, si rifiutano opportunità importanti, si minimizzano i risultati raggiunti o si prova ansia quando tutto sembra andare per il verso giusto”.
Da cosa può avere origine la paura della felicità? Ci sono esperienze comuni alla base di questo disturbo?
“Spesso la cherofobia ha radici profonde. Può svilupparsi in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche o fortemente destabilizzanti, in cui la felicità era seguita da dolore o perdita. In altri casi, deriva da messaggi familiari o culturali interiorizzati fin da piccoli, come “se sono troppo felice, potrei attirare la sfortuna” o “non merito di stare bene”. Queste convinzioni possono consolidarsi nel tempo e influenzare il modo in cui una persona vive le proprie emozioni positive”.
In che modo la cherofobia può influenzare la vita quotidiana, le relazioni sociali e lavorative di chi ne soffre?
“La paura della felicità può limitare molte aree della vita. A livello personale, può portare all’isolamento, al rifiuto di legami affettivi o alla rinuncia a esperienze che potrebbero far star bene. Sul lavoro, può indurre a non accettare nuove responsabilità o riconoscimenti. Nel tempo, questa tendenza può generare insoddisfazione, senso di blocco e difficoltà nelle relazioni interpersonali. Chi ne soffre spesso si sente fuori posto o incompreso, anche se agli occhi degli altri non sembra manifestare particolari disagi”.
Quanto è diffusa oggi la cherofobia e perché, secondo lei, se ne parla ancora così poco?
“Non abbiamo ancora dati certi sulla sua diffusione ma molti psicologi osservano che la paura della felicità è più comune di quanto si pensi. Spesso si nasconde dietro comportamenti e atteggiamenti abituali o difensivi. Se ne parla poco perché è un tema ancora poco conosciuto e perché viviamo in una società che dà grande valore alla felicità come obiettivo da raggiungere sempre. Ammettere di averne paura può far sentire fuori luogo o addirittura in difetto”.
Quanto incide la pressione sociale – come l’idea di “dover essere sempre felici” – nel peggiorare questo tipo di condizione?
“La pressione sociale può avere sicuramente un forte impatto. Oggi si tende a mostrare sempre il meglio di sé, soprattutto sui social, e questo può creare un clima in cui sembra obbligatorio essere felici, performanti e soddisfatti. Chi non si sente in questo modo può sviluppare senso di colpa o di inadeguatezza. In chi ha già una certa fragilità emotiva, questa pressione può aumentare il disagio e rafforzare il bisogno di evitare qualsiasi situazione che possa far emergere emozioni troppo intense, anche quelle positive”.
Infine, secondo lei, la felicità può spaventare una persona? L’essere umano può preferire la “zona comfort” della tristezza per evitare delusioni legate a una felicità che potrebbe svanire?
“Sì, la felicità può spaventare, soprattutto quando è percepita come qualcosa di instabile o passeggero. Alcune persone, per paura di soffrire, preferiscono rimanere in uno stato emotivo che conoscono bene, anche se è triste o limitante. È una forma di protezione: se non mi illudo, non rischio di rimanere deluso. Questo atteggiamento nasce spesso da esperienze passate in cui la gioia è stata seguita da dolore e porta a sviluppare una diffidenza verso tutto ciò che può far star bene”.
“In psicologia lo chiamiamo evitamento emotivo, un meccanismo che ci spinge a scegliere la sicurezza della routine emotiva e a non esporci a situazioni nuove e potenzialmente rischiose, anche a costo di rinunciare a ciò che potrebbe renderci felici. Tuttavia, la felicità, come ogni esperienza autentica, merita di essere vissuta, anche se non è per sua natura eterna. Perché spesso è proprio in quei momenti di felicità che spesso cerchiamo di evitare che si nasconde la parte più viva e vera di noi“.