PALERMO – A venti anni dalla scomparsa del piccolo Giuseppe Di Matteo, Palermo ha ricordato le atroci sofferenze subite da quel ragazzino la cui unica “colpa” fu quella di essere figlio di un pentito, Santino Di Matteo.
Santino di Matteo fu uno degli artefici delle strage di Capaci e, proprio perché iniziò a collaborare con la giustizia raccontando i particolari di quella “operazione” che aveva portato all’uccisione del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti della scorta, fu “punito” con il rapimento e l’uccisione del figlio disciolto nell’acido l’11 gennaio del 1996.
Appartenente alla famiglia di Altofonte, vicina ai Corleonesi, Santino Di Matteo fu uno dei primi affiliati che abbandonò il clan controllato da Totò Riina. Fu arrestato il 4 giugno 1993, accusato di 10 omicidi mafiosi, tra cui la strage di Capaci e l’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo,e decise di collaborare con la giustizia.
Inizialmente fu condannato a venti anni di reclusione che poi furono ridotti a nove, portando alla sua definitiva scarcerazione nel marzo del 2002 quando si trasferì nel paese natale di Altofonte.
Il massacro del piccolo di Matteo, guidato dal mafioso Giovanni Brusca, resta uno dei crimini più terribili della storia di Cosa Nostra: lo scioglimento nell’acido di un ragazzino di quattordici anni solo perché figlio di “uno che ha cantato”.