“Mie magnifiche maestre” di Fabio Genovesi

“Mie magnifiche maestre” di Fabio Genovesi

Non esiste addio che non sia preceduto da una porta socchiusa perché è proprio da lì che, una volta ancora, forse l’ultima, filtrerà un respiro tenuto caro. Com’è piccola la morte, piccola e illusa di cancellare con una spada al vento tutte le particelle viventi. In quale modo fa parte del mestiere di Dio, in quale ora con la fretta di sbattere quella porta listata a lutto.

Mie magnifiche maestre” (Mondadori) il bellissimo romanzo di Fabio Genovesi si concentra proprio su quel penultimo respiro rimandato nell’ora dell’addio.

Da un quartiere generale plasmato di sogno non è impossibile tradurre in vigile coscienza una lettura complice dell’eterna saggezza. Il viaggio nella dimensione sconosciuta racconta una realtà credibile perché radice antica di nuove rivelazioni.

“L’unica libertà che permette a noi di volare sono i sogni.
Senza sforzo, senza costo, senza limite alcuno che non sia l’immaginazione.
Con i sogni puoi volare, come le rondini nel cielo d’aprile”.

Un uomo, un compleanno, il suo, sette giorni e sette notti lo precedono con una sfilata di presenze oniriche ricche di pagine di sola voce che nessuno ha mai letto. Ricordi archiviati per non correre il rischio di inciampare sulle mine della memoria di parte. La morte ritorna per riparare lo strappo dell’anima di chi, nudo sulla Terra a lutto solo per qualche giorno, ha volto lo sguardo in una nuova vita esiliata nell’immensità.

Questa volta il sogno adotta il vestito buono della domenica con il chiaro obiettivo di abbattere i rami secchi che favoriscono la sterilità del seme. Una forma di resurrezione laica si avvicina al cuscino infatuato di luna pensante, al punto da rendere visibile un fiume di vene con la foce a delta nel mare degli affetti. Tanti, come tante sono le magnifiche maestre nel loro trasloco da un vicolo in cielo che a senso unico non è mai stato. Ci sono ferite emotive che adesso rivendicano il loro posto nel mondo, quello dove l’anima è costretta a dare spiegazioni al bagaglio di un corpo mortale.

“Lento, goffo, confuso, ma con un’unica certezza bruciante: il tempo passa, passa di corsa, così veloce che non c’è verso di aggrapparti, ti scuote i vestiti e ti butta a terra, e puoi solo restare a guardarlo sparire lontano”.

Le magnifiche maestre sono le zie, nonne, maestre di saggezza, “eroine del quotidiano” sulla strada di ritorno nell’album fitto di albe e tramonti affetti da un rimuginio imploso. La visita è struggente, un autentico dono nelle notti vestite di luna decisa a non mentire su ciascun lembo di ricordo archiviato.

“A tornare a me non sono le donne della mia famiglia di sangue, ma di quella famiglia più grande e profonda che non è tenuta insieme dallo scuro appiccicoso del sangue, ma da una colla più intensa e trasparente, che è l’amore. Una parentela di affetti, di persone che ti amano e ami, che scegli e ti scelgono. Se la famiglia di sangue è un albero, questa è un bosco, dove le radici sono diverse ma i rami salgono a intrecciarsi e sorreggersi in magnifici disegni sempre diversi”.

Genovesi stende un ritratto delle figure femminili che per lui hanno ricamato una coperta d’amore per gli inverni della vita. Sono donne comuni vissute ai tempi dei suoi primi passi nel mondo che giudica, corregge, promuove lezioni di coraggio necessarie alla sopravvivenza. Maestre, meravigliose maestre.
Benedetta, Isolina, Gilda, Azzurra, Violetta, domatrici del destino nervoso avvalendosi dell’intensità dello sguardo erogatore di quiete.
Esempi di profonda dignità nelle storie che hanno illustrato donne giunte alla porta del paradiso dopo aver consumato i loro anni in un inferno terreno.

Maestre senza un libro in tasca ma custodi di tesori sussurrati nel sogno di uno spirito che sente troppo.
Noi lettori siamo stati invitati alla celebrazione letteraria di un compleanno allergico alla gioia, il cinquantesimo di Fabio Genovesi si inserisce tra le righe emotivamente malconcio perché gravido di malinconie legate a un sè in ritiro spirituale. Non da solo. A turno notturno, le sue magnifiche maestre sollevano la polvere dai ricordi pronti a tradire l’attimo cristallizzato nel “per sempre”.

Nel cuore della notte la voce maestra approfitta della vacanza di luce come conforto di un grido messo a tacere. Chi arriva all’ombra della luna non è mai andato via. Tra poche ore la realtà riprenderà vita lasciando tracce indelebili nel subconscio fantasma del potere di un sogno.

Straordinaria magia a tinte sbiadite tenuta a battesimo da carezze celesti, protettive della macchina emotiva in avaria. Un’esperienza onirica in cui l’allievo/scrittore si sporge oltre i confini mentali reiterati in mezzo secolo della sua storia.

sara