PALERMO – Una vicenda intricata che trova il suo epilogo nelle parole dell’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro. Parole che trovano spazio all’interno di una lettera con la quale ha voluto esternare dolori e preoccupazioni che hanno attraversato la sua coscienza in questi anni.
Appena due giorni fa l’ex presidente ha lasciato il carcere di Rebibbia ed è ritornato nella sua Palermo per poi riabbracciare la madre che abita a Raffadali.
“È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere”, aveva detto non appena uscito dal carcere.
Cuffaro ha, poi, voluto mettere per iscritto le sensazioni che da quel lontano 22 gennaio del 2011 hanno segnato la sua vita:
“Sono passati 1.780 giorni da quando, la mattina del 22 gennaio del 2011, ho intrapreso la strada chiusa. Non ho imprecato contro alcuno, non mi sono appellato alla sorte. Serbo nel cuore il ricordo di tutti. Non voglio scordare questa mia parte di vita. Non voglio scordare le molte sofferenze, le lacrime versate e quelle trattenute, il bruciore della mente, l’angoscia, gli assalti della disperazione (…).
A mia moglie, ai miei figli e a mia madre non ho mai raccontato il mio dolore nel carcere, dell’abisso in cui sono stato per cinque anni. Ho detto loro solo dell’amore e della speranza e di come e dove l’abbia trovata; se avessi detto la cruda verità avrebbero sofferto ancora di più del già tanto dolore sofferto (…). È molto preoccupante e cattivo quello che stanno facendo i terroristi ma è triste confondere, non so quanto in buona e quanto in mala fede, i terroristi con gli islamici. Secondo il governo, le carceri sarebbero luoghi da tenere in particolare attenzione perché ad alto rischio di proselitismo. Io ho pregato insieme al mio compagno di cella Jalal e guardavo i gabbiani, i simboli di libertà, volare dentro le mura del carcere che invece imprigiona la libertà.
La fede è libera e non può essere imprigionata e strumentalizzata. Nemmeno se appartiene ad un detenuto, sia esso cristiano o di fede islamica, sia che si creda in Cristo o Allah. Ho continuato a pregare con il mio buon amico Jalal con la stessa intensità e con le stesse intenzioni per le vittime del terrorismo. E abbiamo pregato nello stesso modo. Di diverso soltanto il mio sguardo rivolto al cielo dove c’erano i gabbiani, mentre quello di Jalal rivolto verso il muro della cella in direzione La Mecca (…).
Sulla politica ho già detto che non voglio dare giudizi. Dico solo che mi pare che chi sta governando «etiam periere ruinae» e che questa non è la politica che conosco. La cattiveria è sempre più protagonista e c’è molta ipocrisia. Non credo abbia meno cose da nascondere, ha solo cambiato nascondiglio e inventato nuovi metodi per nascondere. Dico che sono preoccupato per la nostra Terra (…).
Porto nel mio cuore il dolore e il rimorso di non essere riuscito a salutarmi con papà prima della sua ascesa al cielo. Lui che non riusciva a congedarsi senza prima offrire il saluto e la sua gentilezza neppure a chi veniva a notificare i miei atti giudiziari. Sono sicuro che mi abbia perdonato. L’amore di un padre perdona tutto. Sento il bisogno di tornare nella mia casa paterna, nella strada che mi vide bambino, dove in questi anni il mio pensiero è spesso tornato. Mia madre, che non mi hanno fatto riabbracciare, mi aspetta.
Quando il giudice è terzo costituisce la garanzia della libertà e la tutela dell’uomo e non rende schiavo né il dolore né il diritto e fortifica in ognuno di noi l’idea di giustizia. L’ingiustizia è una pericolosa malattia del nostro sistema giudiziario e credo che, purtroppo, non sarà facile trovarne le cure. Il giorno prima di uscire dal carcere i miei compagni detenuti hanno fatto una festa di saluto. Italiani, europei, extracomunitari, cristiani, islamici, senza Dio, forzuti, emaciati, tatuati, teste rasate, con fine pena a termine e chi con ‘fine pena mai’, hanno voluto salutarmi a modo loro: cantando Hurricane di Bob Dylan. L’ultima parte l’hanno cantata abbracciandomi. Mi sono commosso come non mai. È impossibile descrivere quello che ho provato quando ho messo piede fuori dalla prigione. Ho avuto una irresistibile voglia di urlare. Mai avevo provato una sensazione così forte e intensa. Una gioia immensa di possesso di una nuova libertà. Credo di avere capito solo in quel momento il vero significato della libertà. Ho avuto voglia di piangere insieme alla gioia sfrenata e ho avvertito dentro di me con chiarezza la conferma che era un gran bene riconquistare la libertà e tornare insieme ai miei affetti e alla mia vita.
Posso dire di avercela fatta a superare il carcere (…). Il carcere mi ha tolto tante cose e mi sono mancate. Ma non mi ha tolto l’amore della mia famiglia, quello per la mia Sicilia e il nostro Paese. Molte persone comuni mi hanno voluto bene, me ne vogliono e credono nella mia buona fede e mi hanno difeso. Pochi politici, pochi rappresentanti pubblici e poca stampa mi hanno difeso. La gran parte, seppur credendo che io non abbia mai favorito la mafia anzi l’abbia combattuta, non mi ha difeso. Avevano paura di essere “additati”. Capisco tutti loro e li giustifico, ma io non mi sarei mai comportato così. Oggi è un bel giorno, il primo di una nuova vita. Sento che la sua luce squarcia le tenebre di cinque lunghi anni. È bello respirare la libertà ma non voglio scordare, sono contento di essere tornato libero ma sono molto provato. Ora ho solo bisogno di stare insieme alla mia famiglia“.