CATANIA – Luci calde che rischiarano la notte, pesanti candele che piegano la schiena di chi le trasporta per le vie catanesi, la cera che cola e ricopre le basole di pietra lavica: la festa di Sant’Agata è intimamente legata a ai ceri, alle candele votive, al fuoco.
Tra le grida dei devoti, che orgogliosamente portano il sacco e la scuzzetta, spiccano questi grandi ceri, alcuni arrivano a pesare oltre i 130 chili, per testimoniare le “grazia ricevuta” dalla santa, la miracolosa intercessione che li ha salvati.
Ogni anno così in piazza San Placido, di fronte la cereria Costantino, storico negozio della città etnea, si affollano migliaia di persone per acquistare un cero ogni anno più grande, che sembra crescere con la fede e la devozione dei fedeli.
A seconda infatti della grazia, ricevuta o richiesta, ogni devoto sceglie con cura il cero da portare in dono. Dalle semplici candele bianche, ai ceri ritorti a mano dal tipico colore giallo oppure realizzato su misura. La cereria rappresenta, inoltre, il luogo simbolo da dove i devoti cominciano il loro percorso con il cero in spalla. Una processione che vede migliaia i ceri accesi in onore di Agata.
Ma quale simbolo si cela dietro il cero? Perché Sant’Agata è così strettamente legata al fuoco?
Tra i simboli iconografici che rappresentano la patrona catanese abbiamo (oltre le tenaglie, mammelle, la palma e il libro) il fuoco, dove la giovane martire perì per rimanere non rinnegare la propria fede.
Per una città che sorge alla pendici di un vulcano sempre attivo come l’Etna, la protezione dal fuoco è fondamentale, e con i ceri e, soprattutto, con i fuochi pirotecnici, i catanesi esorcizzano il timore ancestrale degli incendi e della lava.