CATANIA – Gilberto Idonea apre la Stagione a 4 stelle del teatro Metropolitan con un suo cavallo di battaglia: “Liolà”. “Inauguro questa nuova stagione con Liolà, – ha dichiarato –in omaggio e in memoria del Maestro Accursio Di Leo, che ne fu insuperabile regista, insegnandomi a leggerne tutte le sue innumerevoli sfaccettature e che ora riprendo, con grande umiltà e affetto, trasmettendo i suoi immensi insegnamenti alla mia validissima compagnia”. Mercoledì, alle 20, l’anteprima.
Nel corso della stagione seguiranno gli spettacoli: “L’altalena” di Nino Martoglio con Pippo Pattavina (27-28 dicembre), “Mia no tua nemmeno”, con Alessandro Idonea, Plinio Milazzo (14-15 febbraio), “non si sa come” di Luigi Pirandello con Pino Caruso (14-15 marzo), “segue brillantissima farsa” con Gilberto Idonea (18-19 aprile).
“Liolà”, commedia agreste in 3 atti di Luigi Pirandello, regia di Accursio Di Leo, ripresa da Gilberto idonea.
PERSONAGGI INTERPRETI
Neli Schillaci, detto Liolà ALESSANDRO IDONEA
Don Simone Palummu, ricco massaro GILBERTO IDONEA
La zia Croce Azzara, sua cugina GIOVANNA CRISCUOLO
Tuzza, figlia della zia Croce MANUELA VENTURA
Donna Mita, moglie di don Simone LOREDANA MARINO
La zia Ninfa, madre di Liolà GABRIELLA SAITTA
La gnà Gesa, zia di donna Mita AMALIA CONTARNI
La gnà Càrmina, detta la moscardina NELLINA FICHERA
Ciuzza, giovane contadina LUCILLA TOSCANO
Luzza, giovane contadina GIORGIA BOSCARINO
Nedda, giovane contadina LILIANA LO FURNO
i tre cardelli di Liolà: Paliddu, DANIELE DI MAURO, Tiniddu, ALESSIA DI MAURO, Caliddu, FRANCESCO DI MAURO
NOTE DELLA PRIMA RAPPRESENTAZIONE DI MUSCO
Questa commedia, rappresentata per la prima volta la sera del 4 novembre 1916 dalla Compagnia comica siciliana di Angelo Musco al teatro Argentina di Roma, è scritta nella parlata di Girgenti che, tra le non poche altre del dialetto siciliano, è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più d’ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana.
Non per tanto, la maggioranza degli spettatori, che pure con facilità intende gli altri lavori del nuovo teatro siciliano, stentò molto (com’ebbe a rilevare quasi unanimamente la critica teatrale dei giornali romani) a intender questo. La ragione è semplicissima. Quasi tutti gli altri lavori presentano personaggi, usi e costumi borghesi, e sono scritti, o recitati, in quell’ibrido linguaggio, tra il dialetto e la lingua, che è il così detto dialetto borghese, siciliano qui, in altri lavori del genere, piemontese o lombardo, veneto o napoletano: dialetto borghese che, con qualche goffaggine, appena appena arrotondato, diventa lingua italiana, cioè quella certa lingua italiana parlata comunemente, e forse non soltanto dagli incolti, in Italia.
Liolà, commedia campestre, fu recitata, per espressa volontà dell’autore, così com’è scritta, in pretto vernacolo, quale si conveniva ai personaggi, tutti contadini della campagna agrigentina.
Il che vorrebbe dire che, se i comici siciliani recitassero sempre e strettamente nel loro dialetto puro, non sarebbero più compresi, se non con molto stento, dai non siciliani.
Si deve perciò condannare a morte il nuovo teatro siciliano, appena osi varcare i confini dell’isola? Qualche critico ha pronunziato questa sentenza; ma tuttavia il pubblico seguita ad accorrere in folla alle recite della Compagnia comica siciliana del Musco.
Qui, badiamo, non si discute d’arte, ma solo del linguaggio come mezzo di comunicazione. L’opera di creazione, infatti, l’attività fantastica che lo scrittore deve fornire, sia che adoperi la lingua, sia che adoperi il dialetto, è sempre la stessa.
GILBERTO IDONEA RICORDA ACCURSIO DI LEO
Conobbi Accursio Di Leo (Caltabellotta, 1917 – Palermo, 1997) quando lasciò il teatro “ufficiale”, quello professionistico, che non sentiva più vicino alla propria sensibilità, nel 1970, partecipando, con un piccolo ruolo, al suo spettacolo Sicilia, terra d’amuri, capitanato dall’allora ministro del turismo e spettacolo Lupis, rappresentato con successo a Filadelfia, New York, Boston e trasmesso dal Canale 49.
Allora giovane attore non avrei mai supposto che vent’anni dopo sarei ritornato da protagonista, quasi ogni anno, in quegli stessi teatri dove ero stato con Accursio, e ogni volta una grande emozione mi assale prima dell’apertura del sipario ricordando il mio maestro, i suoi suggerimenti, il suo entusiasmo, la sua fierezza, la sua fiducia e la capacità di dare fiducia.
M’insegnò ad amare il teatro, lui, che era un innamorato “pazzo” del teatro, una “pazzia” d’amore che durò tutta la sua vita, cimentandovisi come se fosse stato investito da una missione laica.
Le sue regie sono state quelle dei miei migliori spettacoli (Lumie di Sicilia, ‘U sapiti com’è, Il berretto a sonagli, Liolà), perché mi suggeriva di spulciare sempre fra le pieghe dei testi, anche i più usurati, per non farli assalire dalla noia della consuetudine.
Accursio era come Liolà, un uomo libero che è ricco delle piccole cose, un uomo generoso fino all’estremo, un altruista. Sempre pronto a mettersi in gioco, in un’età in cui molti si consideravano già arrivati. Non era un regista era un missionario.
Con Liolà la nostra compagnia decollò e considerandoci maturi ci lasciò per cercare altri giovani da portare ad amare il teatro… la nuova linfa.
Passarono gli anni…
Una sera, forse fu l’ultima volta che lo vidi, stavo recitando al “Massimo” di Palermo e vidi Accursio Di Leo seduto in prima fila. Gettando lo sguardo in sala incontrai i suoi occhi e mi fece un sorriso dolcissimo, in pochi secondi lessi nel viso del mio maestro la gioia per la mia affermazione.
Partecipava al mio successo con pudore e con umiltà, lui che aveva fatto nascere le più importanti istituzioni teatrali siciliane, dallo “Stabile” di Catania al Teatro Biondo Stabile di Palermo e se ne stava seduto come uno sconosciuto per il numeroso pubblico in sala.
Allora decisi di fare una cosa che un attore professionista non farà mai, ma che io feci, essendo un “guitto da strapazzo”; mi fermai e interrompendo lo spettacolo dissi: «Sto vedendo in sala il mio maestro, Accursio Di Leo, senza di lui non avrei mai fatto l’attore con amore e serietà, fino a farmi arrivare in questo teatro, quindi, vi prego, di unirvi al mio applauso di gratitudine e riconoscenza».
Un’ovazione, calorosissima, si levò dalla sala. Accursio, allora settantasettenne, si alzò emozionato come un bambino al suo primo debutto, un breve gesto di saluto al pubblico con la mano mentre con l’altra, furtivamente, si asciugava una lacrima.
Gli recitai allora il brano di Liolà che più amava:
«Arsira mi curcavu a lu sirenu;
li stiddi foru ca m’arripararu:
lu litticeddu, un parmu di tirrenu;
lu chiumazzeddu, un carduneddu amaru.
Làstimi, fami, siti, cripacori:
chi mi nni ‘mporta, si sacciu cantari?
Cantu, e mi s’arricrìa tuttu lu cori;
cantu, ed è mia la terra e miu lu mari!
Basta ca cc’è lu suli e la saluti!
Picciotti beddi e picciliddi duci,
e ‘na vicchiuzza ccà, ‘comu a me’ matri!»
Grazie Accursio
Gilberto Idonea