La Crusca prende atto dei cambiamenti linguistici  scaturiti dalla cultura digitale

La Crusca prende atto dei cambiamenti linguistici scaturiti dalla cultura digitale

È innegabile che l’avvento dell’era digitale abbia modificato il modo di comunicare e, in una certa misura, la scrittura tramite il ritorno all’utilizzo di simboli pittografici, gli emoji, e parole abbreviate per risparmiare tempo e caratteri. Nel corso degli anni i linguisti hanno reagito nei modi più creativi, solo oggi però arriva la consacrazione ufficiale del nuovo linguaggio. Il presidente della massima autorità linguistica italiana, Claudio Marazzini, ha dichiarato a il Venerdì de la Repubblica che nei suoi messaggi non si vergogna affatto a scrivere “perké” con la K, né a usare emoticon, dichiarando inoltre che «i pericoli del Web per la lingua sono ben altri».

Nel suo ultimo libro, Scrivere nell’era digitale, inserito nella collana L’italiano. Conoscere e usare una lingua, spiega come il moderno modo di scrivere non interferisca con l’aspetto morfosintattico delle parole, è una questione di grafia; dunque, via libera alle chat e nessuna mistificazione dell’era digitale.

«Prima con la Lettera 22 (celebre macchina da scrivere realizzata dalla Olivetti negli anni ’50, ndr), eravamo costretti a riscrivere sempre da capo, a ripensare ogni volta un testo – chiarisce il linguista -. Oggi invece rimaniamo troppo legati alla prima stesura. Servirebbero delle lezioni di metodo critico. Il vero pericolo è il copia-incolla» continua, concentrandosi in particolare sulla necessità di approfondire i metodi di ricerca sia nella composizione di articoli giornalistici che di saggi.

Marazzini si scaglia contro l’uso spropositato dei motori; questi, in pochi click, conferiscono all’autore di un testo la possibilità di rimodulare a suo piacimento concetti già espressi da qualcun altro, senza favorire l’analisi critica. L’alternativa, allora, quale sarebbe? A parere del glottologo, il riassunto, «come rielaborazione in grado di penetrare dentro al documento che s’intende citare».

Nell’opera non mancano le frecciatine ai colleghi “apocalittici” e, per converso, ai nativi digitali. I primi avrebbero perso la scommessa secondo cui la cultura internettiana non sarebbe mai riuscita a sostituire quella classicista della carta, infatti oggi basti pensare che anche solo per essere professori di materie umanistiche occorre saper compilare un modulo online del Ministero e allegare più file PDF; i secondi, invece, «non esistono. Io mi ritengo più bravo dei miei figli nel gestire il computer e la rete di casa. Un adulto può essere competente tanto quanto un cosiddetto “nativo digitale”, soprattutto quando non si tratta di giochini ma di questioni serie».

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Morale della favola: l’italiano non è a rischio, «il vero problema è rappresentato dai livelli culturali degli italiani assai migliorabili, dall’analfabetismo di ritorno e dalla scarsa capacità di comprensione del testo, ambito in cui siamo all’ultimo posto tra i Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)». Questa è la vera minaccia per la nostra lingua, non certo le chat, i “perké” con la K e le nuove tecnologie.

Alberto Molino