TRAPANI – A soli 41 anni il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto era la memoria storica della Procura di Trapani, il primo a indagare a fondo sui padrini della provincia e a intuire quale sarebbe stata la strada vincente per colpire il cuore di Cosa nostra: quella del denaro. E chi tocca i soldi e ha uno spiccato intuito investigativo per la mafia rappresenta un pericolo che va eliminato senza troppe cortesie o ragionamenti.
Integerrimo servitore dello Stato e autentico difensore della legge, Giangiacomo Ciaccio Montalto, nato a Milano il 20 dicembre 1941, aveva respirato e vissuto i temi della legalità e della giustizia sin da giovanissimo grazie alla propria famiglia, di origine trapanese. Il padre Enrico era un magistrato della Cassazione. Il nonno Giacomo era un notaio e aveva ricoperto la carica di sindaco di Erice. Il fratello Enrico, morto a soli 22 anni in un incidente stradale, era un giovane dirigente comunista che aveva partecipato nel dopoguerra alle lotte bracciantili.
Entrato in magistratura nel 1970, Montalto l’anno successivo era diventato sostituto procuratore a Trapani, facendo ritorno nella terra che aveva dato i natali alla sua famiglia. Da subito si era occupato di inchieste delicate e mediatiche. Come quella che lo ha visto in veste di pubblico ministero nel processo contro colui che le cronache dell’epoca hanno ribattezzato “il mostro di Marsala”, al secolo Michele Vinci, condannato per aver rapito e gettato in un pozzo, lasciandole morire, tre bambine, tra le quali una sua nipote.
Attraverso le sue indagini Montalto si occupava di appalti truccati, speculazioni edilizie, del “sacco” di Belice (dopo il devastante terremoto del 1968), di droga e raffinazione dell’eroina nel Trapanese, di traffici di armi e frodi comunitarie. Ma anche di inquinamento nel golfo di Cofano, minacciato da scarichi illegali e dal tentativo di realizzarvi una raffineria di petrolio.
Dal 1977 aveva indagato sui mafiosi della provincia trapanese e sui loro legami con il mondo imprenditoriale e bancario. Un dettaglio che oggi può apparire scontato, ma che allora era quasi pionieristico. Le sue inchieste, infatti, si basavano su indagini patrimoniali che ricostruivano il percorso del denaro sporco nelle banche di Trapani. Perché per Montalto nei consigli d’amministrazione delle banche private della provincia c’era la mappa delle potenti alleanze fra logge massoniche, gruppi di potere e cosche mafiose. Non a caso la città era detta la “Lugano del Sud” per i miliardi di lire depositati negli istituti di credito privati.
È in quel periodo che le sue investigazioni si sono concentrate sul clan dei Minore. Grazie a un dossier dei carabinieri, ne erano state ricostruite le attività criminali: omicidi, corruzione, spaccio di stupefacenti e traffico d’armi. Ma, soprattutto, il clan trapanese era alleato dei corleonesi di Totò Riina.
Nell’ottobre del 1982 Montalto aveva emesso 40 ordini di cattura per associazione di stampo mafioso contro padrini e imprenditori della zona. Una massiccia operazione stroncata del tutto: nel giro di pochi mesi, infatti, i soggetti coinvolti vennero scarcerati, senza nessuna esclusione, per insufficienza di prove.
Mentre la macchina della giustizia stentava a mettersi in moto, quella delle intimidazioni mafiose invece procedeva spedita da lungo tempo. Montalto infatti riceveva da anni minacce e telefonate anonime. Un giorno trovò anche una croce nera disegnata con una bomboletta spray sul cofano della sua Volkswagen Golf.
Nel 1976 aveva confidato le intimidazioni alle quali era sottoposto allo scrittore e giornalista Vincenzo Consolo. A patto, però, che non scrivesse nulla del loro incontro e delle sue rivelazioni, “solo se dovesse succedermi qualcosa”. Una confessione destinata a diventare profetica e a essere raccontata su La Stampa e Il Messaggero, a cui seguì anche un’interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia.
Ma Giangiacomo Ciaccio Montalto non era tipo da abbattersi o tirarsi indietro. Dal momento che a Trapani le sue inchieste venivano sistematicamente demolite e avendo intuito gli interessi e gli affari che Cosa nostra stava già svolgendo in Toscana, aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Firenze. Non prima, però, di aver emesso un mandato di cattura nei confronti di Giacomo Riina, anziano zio del boss corleonese.
Solo tre settimane prima del suo omicidio, Montalto era andato a Trento per incontrare il procuratore Carlo Palermo e scambiarsi informazioni sulle inchieste relative al traffico di droga. Una pratica non inusuale per il giudice, che intuiva l’utilità dello scambio continuo di dati tra i colleghi che in tutta Italia si occupavano di mafia. Aveva anche sottolineato la necessità di preservare in una banca dati nomi e fatti mafiosi, affinché le conoscenze conquistate sul campo dal singolo non diventassero solo un patrimonio personale destinato a sparire. Chiedeva soltanto di lavorare supportato dagli strumenti adeguati, per arginare la situazione di sostanziale solitudine nella quale si trovava a operare. Tenace e abbandonato in prima linea.
Era un magistrato che sapeva, che collegava correttamente i pezzi del grande puzzle della criminalità organizzata e tentava di ostacolarne i progetti. Del resto viveva la sua professione non solo come un lavoro, ma anche come una vera missione. E anche se minacciato non aveva auto blindata, né scorta. Pensava che avere degli agenti al proprio fianco non avrebbe salvato vite ma, al contrario, ne avrebbe messe in pericolo altre. E riteneva di non essere così “importante” da essere ucciso. Purtroppo si sbagliava.
La notte del 25 gennaio 1983 tre sicari lo raggiunsero in via Carollo, a Valderice. Montalto stava tornando a casa. Sulla sua auto si abbatté una pioggia di proiettili esplosi con mitragliette e pistole calibro 38. Venne colpito anche l’orologio della plancia che si fermò a indicare l’ora esatta del delitto, l’una e dodici minuti. Nessuno dei vicini si allarmò per l’improvvisa sparatoria, nessuno chiamò le forze dell’ordine. Il corpo del magistrato venne ritrovato solo alle 6,45 da un pastore.
I funerali di Stato vennero celebrati nella Cattedrale di San Lorenzo alla presenza di 20mila persone. Accorse anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che davanti alla bara disse: “Per ricordare Ciaccio Montalto e per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione”. Poche ore più tardi, durante una convocazione ufficiale del Consiglio Superiore della Magistratura a Palermo, Pertini dichiarò solennemente: “Il popolo italiano non può essere confuso con il terrorismo e il popolo siciliano non può essere confuso con la mafia”.
Dell’omicidio venne sin da subito sospettato il boss Salvatore Minore, già ricercato in seguito alle inchieste di Montalto per omicidi e associazione mafiosa. Condannato in contumacia nel 1989 per l’omicidio del giudice, con i mafiosi Ambrogio Farina e Natale Evola (ritenuti esecutori materiali), i tre imputati vennero assolti nel ’92 dalla Corte d’Appello di Caltanissetta. Sentenza poi confermata dalla Cassazione nel ’94. Quattro anni dopo, però, venne accertato che Minore era stato ucciso nel 1982 dai corleonesi e che il suo cadavere era stato fatto sparire.
Nel 1995, infatti, sono state le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Rosario Spatola, Giacoma Filippello, Vincenzo Calcera e Matteo Litrico a permettere l’identificazione e la condanna dei veri responsabili: i boss Totò Riina e Mariano Agate. Era stato quest’ultimo a pronunciare la frase che aveva decretato la condanna a morte del giudice: “Ciaccinu arrivau a stazione”. Montalto era arrivato al capolinea. Aveva messo le mani sui beni dei padrini grazie alla legge Rognoni-La Torre entrata in vigore a fine 1982 che permetteva il sequestro e la confisca dei possedimenti riconducibili ai boss.
Montalto era stato, infatti, tra i primi a metterla in pratica. E forse, secondo il progetto e il messaggio che voleva lanciare Cosa nostra attraverso la sua barbara uccisione, avrebbe dovuto essere uno degli ultimi. Ma a raccogliere il testimone di Montalto sono stati altri uomini e colleghi con un alto senso delle Istituzioni, come Giovanni Falcone, legato al magistrato non solo dal lavoro alla Procura di Trapani, ma anche da uno stretto rapporto di amicizia e fiducia.
Era un uomo libero Giangiacomo Ciaccio Montalto, mosso da un candido coraggio e da un appassionato senso civico. Amava la vela e il mare. Apprezzava le opere di Eco, Tomasi di Lampedusa e Marquez. E aveva una sincera passione per la musica, la lirica, Beethoven. Molto riservato, evitava di frequentare i salotti, un uomo tutto casa e lavoro.
Ma più di tutto era un padre e un marito attento e amorevole. La moglie Marisa La Torre (trapanese) e le tre figlie Marene, Elena e Silvia, però, dopo il suo assassinio si sono ritrovate improvvisamente sole e minacciate, costrette ad allontanarsi dalla loro terra e a trasferirsi a Parma. Perché ai nemici di Montalto non bastava averlo eliminato fisicamente, volevano anche cancellare ogni sua traccia dalla città che aveva provato a sottrarre al giogo del malaffare diffuso. È per questo che occorre ricordare la sua storia e il suo lavoro. Perché quel dolore non sia stato vano, ma un seme di speranza.
Fonte foto: memoria.san.beniculturali.it
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