Aldo Moro e Peppino Impastato, città diverse ma destini incrociati in quel tragico 9 maggio 1978

Aldo Moro e Peppino Impastato, città diverse ma destini incrociati in quel tragico 9 maggio 1978

ITALIA – Città diverse, ma purtroppo destini incrociati per le vittime Aldo Moro e Peppino Impastato. A 46 anni dalla scomparsa, ricordiamo due degli omicidi che hanno segnato la storia del nostro Paese.

Premessa

Era il lontano 9 maggio 1978, quando nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani a Roma, veniva ritrovato dalle Forze dell’Ordine, il corpo senza vita del politico e giurista Aldo Moro.

Quasi nello stesso momento, (una decina di ore prima) mentre l’Italia era sconvolta dall’accaduto nella Capitale, in Sicilia, e precisamente a Cinisi, moriva anche il giornalista e attivista Peppino Impastato.

Due tragedie queste, analoghe tra loro, che nella coscienza degli italiani hanno lasciato un forte sconvolgimento, che ancora oggi non si può, ma soprattutto deve, dimenticare.

Ricostruzione dell’omicidio di Aldo Moro

Aldo Moro, venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo sempre del medesimo anno, e in seguito fu assassinato dopo esattamente 55 giorni di prigionia.

Proprio quel giorno infatti, si svolse la presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti, e la Fiat 130 che trasportava Moro dalla sua abitazione, situata nel quartiere Trionfale, zona Monte Mario di Roma, fino alla Camera dei Deputati, fu intercettata da un commando delle Brigate Rosse, specificatamente all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa.

In base alla ricostruzione, nonché versione ufficiale della vicenda, secondo le testimonianze raccolte degli arrestati sotto sentenza giudiziaria, quattro uomini delle Brigate Rosse travestiti da avieri dell’Alitalia, uccisero i cinque uomini della scorta del Presidente della Democrazia Cristiana (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi), sequestrando quest’ultimo.

Successivamente Guido Salvini, magistrato e consulente per la commissione parlamentare d’inchiesta sul Caso Moro negli anni tra il 2014 e il 2018, avanzò l’ipotesi in cui ci sarebbero state anche altre persone a prendere parte al rapimento.

Su fondamento della rielaborazione del Memoriale Morucci, Moro fu poi tenuto prigioniero per quasi due mesi, dentro un covo in via Camillo Montalcini, anche se, tenendo in considerazione le versioni più recenti, supportate da nuove testimonianze e metodi di indagine aggiornati, sarebbero emerse delle “contraddizioni” sulle confessioni dei brigadisti, secondo cui Moro invece sarebbe stato spostato in più covi durante il suo periodo di reclusione.

I brigadisti conclusero la fase di cattura con l’uccisione di Aldo Moro, facendolo salire all’interno del cofano di una Renault 4 rossa, rubata in precedenza nel quartiere Prati, all’imprenditore Filippo Bartoli.
Gli ordinarono di coricarsi e coprirsi con una coperta, sostenendo di volerlo trasportare in un altro luogo, ma invece gli spararono dodici colpi di proiettile.

Ritrovamento del corpo

Il corpo venne ritrovato la mattina del 9 maggio in via Caetani, in maniera emblematica e simbolica, vicino a piazza del Gesù, in cui vi era la sede nazionale della Democrazia Cristiana, e a via delle Botteghe Oscure, zona della sede nazionale del Partito Comunista Italiano.

Analogie con Peppino Impastato

Sempre il 9 maggio, ma nella notte, fu assassinato anche Giuseppe Impastato, detto “Peppino”, uno dei membri della Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività illecite di “Cosa Nostra”.

Nato a Cinisi, in provincia di Palermo, proprio da una famiglia legata all’organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico, presente in particolar modo in Sicilia, decide di interrompere molto presto i rapporti con il padre, che lo cacciò di casa, a causa di varie divergenze e incomprensioni presenti tra loro, nel cosiddetto “modus agendi/vivendi/operandi”.

Il giovane avviò un attività politico-culturale di sinistra, basata sull’antimafia, e dopo qualche anno, fondò “Radio Aut”, una radio libera autofinanziata, tramite la quale denunciava i crimini e gli affari dei mafiosi del Paese, anche in maniera grottesca e con una buona dose di satira, quasi a “deridere” delinquenti e determinati politici.

Le sue attività

Nonostante le minacce e le continue pressione da parte della comunità locale, si candidò alle elezioni comunali, nella lista di Democrazia Proletaria, ma sfortunatamente non fece nemmeno in tempo a sapere i risultati delle votazioni, poiché fu ucciso a campagna elettorale ancora in corso di svolgimento.

Infatti, su commissione di Badalamenti, successore di suo zio Cesare Manzella come capomafia locale, avente un ruolo primario nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’Aeroporto di Punta Raisi, venne colpito con un grosso sasso, ritrovato a pochi metri di distanza ancora sporco di sangue, tentando di far apparire la sua morte come suicidio o fallito attentato.

In un secondo momento, non essendo morto definitivamente, ma solo tramortito, una carica di tritolo fu posizionata sotto al suo corpo, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.

L’esito della campagna elettorale fu positivo, in quanto gli elettori votarono ugualmente il defunto Peppino, proprio per rispetto e ai fini di sottolineare i valori della sua persona.

Ci furono svariate supposizioni e congetture riguardo la morte, principalmente da parte di Stampa, Forze dell’Ordine e Magistratura, che affermarono fosse stato egli stesso ad aver architettato un attentato in cui sarebbe rimasto poi ucciso.

Dopo, subentrarono teorie di suicidio, sulla scorta di una lettera ritrovata in casa della zia, che però in realtà non rivelava alcuna intenzione suicida.

Alla fine, la matrice mafiosa del delitto fu individuata grazie all’attività del fratello Giovanni e della madre Felicia, che da subito non credettero a tutte le affermazioni che stavano circolando.

La reazione della famiglia

Ruppero all’improvviso e pubblicamente con la parentela mafiosa, si adoperarono per la ricerca della verità in merito alla morte di Peppino, e secondo la documentazione raccolta e le denunce presentate, venne riaperta l’inchiesta giudiziaria, chiusa in precedenza quasi subito.

Conseguentemente alle diverse aperture e chiusure dell’indagine durate anni, insieme a nuovi elementi e dichiarazioni, fu indicato come mandante dell’omicidio Gaetano Badalamenti, con il suo vice Vito Palazzolo.

Conclusioni finali

Ogni anno viene celebrata questa data proprio in memoria di due eroi, che hanno cercato di rendere l’Italia e la Sicilia dei posti migliori, sia per coloro che ci vivevano in quel periodo storico, che per le generazioni future, come dimostrazione di esempi validi e lampanti dell’importanza della legalità e per mantenere vivo il ricordo di tutte le vittime di terrorismo.

Articolo a cura di Fabiola Laviano