Storie e Covid, l’esigenza di “umanizzare” la pandemia sui social

Storie e Covid, l’esigenza di “umanizzare” la pandemia sui social

Storie e Covid: chiunque abbia frequentato i social nell’ultimo anno, non può fare a meno di notare la quantità immensa di informazioni e di racconti diffusi quotidianamente sulla pandemia.

Una produzione che in alcuni momenti insegna, in altri esaspera. Deriva da ogni parte del mondo, senza eccezioni o differenze di lingua e/o cultura. La normalità si è trasformata radicalmente, lasciando spazio alla voce di chi da questa situazione uscirà cambiato sotto ogni aspetto.

E se in un primo momento, all’inizio della pandemia, dominava la privacy, a distanza di un anno si può dire che la “personalizzazione” delle notizie è diventata un must, con l’aspetto umano al centro. Sembrano lontani i tempi in cui abbiamo visto per la prima volta l’immagine di un’infermiera stremata dopo un lungo turno per curare i pazienti Covid: il web è ormai invaso da persone che mostrano il proprio ricovero, che raccontano storie dei propri cari (a lieto fine o dalla conclusione tragica), che condividono il momento del vaccino…

Storie e Covid: perché?

Da dove nasce l’esigenza di raccontare sui social la vita con il Coronavirus? Perché ci troviamo a leggere storie di famiglie devastate, esercizi economicamente distrutti e perfino storie d’amore nate al tempo del Covid? Perché tutti sembrano volerci “mettere la faccia”?

Se si rispondesse che tutto ciò accade per pura voglia di protagonismo o per moda, si correrebbe il rischio di essere superficiali. D’altro canto, pretendere di dare una risposta completa è assurdo. Delle considerazioni, però, sono possibili.

Un anno fa il Covid-19 era un nemico totalmente sconosciuto: c’è chi lo ha incontrato presto, chi si è reso conto della sua presenza solo quando ha sentito pronunciare la parola “lockdown“. Si tratta forse del primo evento della storia recente che è vissuto dalla società nel suo complesso, che divide ma unisce al tempo stesso, che mette alla prova ogni individuo.

Non c’è una persona che non sia protagonista dell’emergenza sanitaria: se all’inizio il dramma era di chi si trovava intubato in Terapia Intensiva, oggi ognuno affronta le conseguenze della pandemia e delle restrizioni, nonostante l’impatto sia differenziato da persona a persona.

Potrebbe essere proprio questo a spingere le persone a raccontare, a condividere la propria esperienza, per quanto apparentemente insignificante. Un gesto che a volte raggiunge degli estremi (certi commenti sugli stessi social, nelle pagine dedicate all’informazione, lo dimostrano), ma che è diventato una sorta di “terapia” low-cost per convivere con il Coronavirus e spingere gli altri a trovare il coraggio di farlo.

Umanizzare la pandemia vuol dire anche imparare a darle un volto, a renderla “vera” (per quanto, purtroppo, i numeri drammatici proposti quotidianamente non siano meno reali). E da semplice modo di raccontare quanto è accaduto e sta accadendo, lo stile narrativo nell’era pandemica è diventato una sorta di sfogo o, per meglio dire, una possibilità per trovare la propria voce ed esprimerla in un momento che rimarrà nei libri di storia per sempre.

Conclusione?

Forse lo scopo del condividere storie va oltre il bisogno di informare e di sensibilizzare. E forse c’è anche bisogno di rivedere il modo di percepire e raccontare la pandemia. Vedere come la società è passata dal non voler parlare di nulla al sentire il bisogno di raccontare e sapere tutto, perfino la storia più “normale”, è qualcosa che merita considerazione e attenzione. Perché ciò accade? Una domanda a risposta aperta che chiunque può porsi di fronte all’ennesima storia che di fatto può non fare notizia, ma evidentemente ha un significato per chi la racconta e per tanti che l’ascoltano.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay