La lingua siciliana: un viaggio nei secoli attraverso la storia delle dominazioni

La lingua siciliana: un viaggio nei secoli attraverso la storia delle dominazioni

PALERMO – Il dialetto siciliano non deriva dall’italiano, detiene, anzi, il primato letterario in merito al formarsi dell’idioma italico, tanto da essere riconosciuto dall‘Unesco come lingua regionale.

Si tratta di una tipicità linguistica, fatta di espressioni che fanno “vedere“ciò che significano, “…che dicono – come afferma Pirandello nella prefazione alla Centona di Nino Martoglio – le cose della loro terra come la terra vuole che siano dette, col sapore e il colore, l’aria, l’alito e l’odore con cui vivono veramente e si gustano e si illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove”.

La nostra lingua madre ha avuto una lunga evoluzione.

Nei tempi più remoti si trovano, legati alle attività dei primitivi Sicani e Siculi, elementi babilonesi le cui tracce sono evidenti: quarura deriva da quaruru che a Babilonia indicava il calore del sole; taddu da talu, germoglio o ramo; cannata da kannu, recipiente per liquidi; coppu da quppu, rete conica. Anche il nome dello strumento tipico siciliano, che per la sua forma e il suo timbro è chiamato marranzanu proviene dal babilonese muzaranu che significa rana.

Tutti i popoli qui venuti a dominare – scrive monsignor Mariano Foti, grande filologo e storico catanese, parroco per oltre mezzo secolo della chiesa ora santuario, dedicata alla Madonna, sita nel quartiere di Ognina, nella sua opera Civitas – attratti dalla prodigiosa fertilità della nostra terra che allettò l’ambizione di molti conquistatori, lasciarono le loro impronte glottologiche”.

Della colonizzazione greca, che si estese dal 729 al 263 a.C., proviene il termine trixini, che a Catania era solito darsi ai barbieri e che deriva da trix che vuol dire capello, chioma, cui va collegato l’italiano trecce; babbiare, scherzare, da babazo; taddaritapipistrello, da nycterida; tuppuliari, bussare, da typo. I tre grandi scogli dei Ciclopi, chiamati faragghiuni vengono dal greco faraggodes che significa luoghi ripidi, scoscesi, da faragx, dirupo.

Subentra la dominazione romana che si estese dal 263 a.C. al 476 d.C.. “Nelle dimensioni culturali filologiche del linguaggio siciliano, – continua Mariano Foti – vediamo emergere il latino anche nell’angolazione sintattica: il verbo è spesso posto alla fine della proposizione e il condizionale in tutto sostituito dal congiuntivo”. Sono centinaia le voci siciliane che finiscono su radice latina: la quartara che la massaia riempiva d’acqua alla fontana, deve il suo nome al quartarius che indicava a Roma la quarta parte di una misura di capacità; antura, poco fa da ante horamastura, a quest’ora, da istam horam; prescia, fretta, da pressus; susus,sopra da sursum.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, in Sicilia è un susseguirsi di Vandali, Eruli, Goti, Bizantini, sino alla dominazione degli arabi, che va dall’827 al 1060. Sono, infatti, arabe le parole: gebbia, vasca d’acqua; sciroppo, che vuol dire cantico, a significare che quel sapore zuccherato è come un dolcissimo canto in bocca; tabuto che indica la cassa mortuaria; Mungibeddu designante l’Etna, che gli arabi hanno considerato come “il monte” per antonomasia e quindi chiamato Gebel.

Cacciati gli Arabi e passata ai Normanni, la Sicilia, scrive ancora Mariano Foti, “accentua quel periodo di vasta divulgazione culturale che, nel successivo dominio Svevo, culminerà in un movimento di altissima incidenza nel formarsi della nostra letteratura italiana: la Scuola Poetica Siciliana“. Ed è proprio presso la corte di Federico II che la lingua siciliana letteraria ebbe il suo massimo fulgore.

Sotto lo Stupor Mundi entrano nell’uso comune anche alcune parole tedesche come feu, feudo, da fehn; guastedda, pagnotta da wastelmuffutu, ammuffito, da muff; tanfo, puzza da tampf.

Con l’arrivo degli Angioini avviene la contaminazione francese da cui: arrusciari, innaffiare, da arroser; boffa, schiaffo da bouffecirasa, ciliegia, da cerise; darreri, dietro, da derriére; muschitta, moscerino, da moustique; racina, uva, da raisin.

Nel 1516 ebbe inizio la lunga dominazione spagnola; in questo periodo il latino e il greco diventano lingua dei dotti, l’arabo non esiste più e il siciliano si qualifica lingua comune. Ecco che si fondono e si insinuano diversi termini: anciova, acciuga, da anchoacapuliari, tritare, da capuliarjurnata, giornata, da jornadalazzu, laccio, da lazo; scupetta, fucile, da escopeta.

Dopo questo itinerario particolarmente impegnativo, è certamente con occhi nuovi che miriamo questo nostro linguaggio in cui il fraseggio si schiude come corimbi in fiore, e reverbera il fremito delle vele trasfigurate al sole, sull’onda che si dissolve in trine iridescenti… e le parole hanno accenti musicali quasi uno scivolar d’archi su violoncelli d’azzurro, uno scandire di note su cetre di luce…”, conclude Monsignor Mariano Foti. Con ammirazione e affetto per un uomo che, innamorato della sua terra natia, ha fatto della sua vita un servizio, lasciando, dopo la sua morte, una traccia indelebile nella cultura catanese.