CATANIA – Correva il 2 giugno quando si è diffusa la notizia del rapimento dell’ingegnere catanese Vanni Calì. L’uomo, dell’età di 74 anni, era stato prelevato dal cantiere in cui lavorava ad Haiti giorno 1.
Calì si trovava sul posto per conto della ditta romana di costruzioni Bonifica Spa per la costruzione di una strada. Una prigionia, quella del 74enne, che è durata ben 23 giorni in mano a dei criminali.
Nello specifico il sequestro era avvenuto a Croix des Bouquets, località dell’entroterra poco distante dalla capitale Port-au-Prince, a opera di una nota gang locale, denominata “400 Mawozo”. Il rapimento era avvenuto per degli scopi estorsivi.
Ormai rientrato a casa dopo l’atterraggio avvenuto all’aeroporto di Roma Ciampino lo scorso 26 giugno e dopo aver accettato oggi l’invito a far parte dell’Amministrazione comunale di Catania, Vanni Calì ha scritto proprio questo pomeriggio un lungo post su Facebook così rompendo il silenzio dopo quanto trascorso.
Le parole di Vanni Calì dopo “la prima doccia a casa”
Esordisce così l’ingegnere catanese nel proprio profilo Facebook: “Come fare a ringraziare tutti quelli che con il loro amore, le loro preghiere, il loro pensiero, hanno voluto stare vicino a me ed alla mia famiglia in uno dei momenti più difficili e dolorosi della mia vita? Forse questa foto, scattata dopo la prima doccia finalmente a casa, potrà darvi un’idea di come la gioia del ritorno sia riuscita a sopravanzare le atroci sofferenze che ho dovuto patire in quei 23 giorni in cui, senza alcun sospetto e senza alcun plausibile motivo, sono stato segregato, mani e piedi sempre legati, in una specie di casupola con i muri in fango e pietre, il tetto in legno ammuffito e lamiera ondulata che rendeva impossibile resistere al caldo umido che già raggiungeva temperature impossibili”.
I dettagli dei giorni di prigionia: “Così legato avevo per giaciglio un foglio di cartone poggiato sulle pietre e ricoperto da uno sporchissimo lenzuolino sul quale dovevo sforzarmi di trovare delle posizioni che non ferissero ulteriormente il mio corpo già così provato. Costantemente sottoposto al controllo di uomini armati fino ai denti, dovevo capire come trascorrere 12 ore di luce e 12 ore di buio (che più buio non si può), contando il tempo attraverso il percorso dei raggi di sole che filtravano dal soffitto bucato, in assoluta sospensione di vita e di conoscenza senza avere alcuna possibilità di sapere cosa stesse succedendo e come la mia famiglia stesse vivendo questi tragici momenti. É stato terribile, orribile. Rischiavo di essere sopraffatto dalle emozioni e dal dolore e mi sono reso conto che ciò avrebbe potuto compromettere la mia resistenza fisica e soprattutto mentale. Così, mettendo da parte la difesa del mio corpo (che, immaginavo, avrebbe in qualche modo resistito), decisi di concentrarmi nella difesa della mia mente evitando di pensare o immaginare tutto quello che avrebbe potuto ferirmi e indebolirmi”.
Il 74enne poi svela il “segreto” della sua resistenza mentale: “Non pensavo a mia moglie in lacrime o disperata. Ho costruito una sua immagine sorridente e serena seduta nel nostro splendido giardino con accanto il cane scodinzolante di mia figlia. Quando avevo bisogno di conforto, richiamavo la visione di questa immagine che mi dava forza e gioia. Così con i miei figli, i miei adorati nipoti, mia madre e, piano piano di tutti quanti parenti, amici e conoscenti che hanno reso migliori i miei 74 anni. Cercavo di mantenere in allenamento la mia mente con strani esercizi, come se avessi a disposizione il mio amato computer, oppure inventandomi dei quesiti da risolvere come ad esempio ricordarmi nomi e volti dell’appello della mia terza liceo: Bruno, Calì Cocuzza, …. Zuccaro. Ogni tanto qualcuno mi sfuggiva e ricominciavo daccapo finché non riuscivo a ripeterlo per intero. Per addormentarmi sceglievo ricordi allegri e gratificanti come quelli legati ai miei antichi trascorsi pallanuotistici con Mario e Tony che mi passavano la palla per segnare un altro goal. É da pazzi lo so, ma era l’unico modo (almeno credo) per non cadere nel panico e nell’angoscia mentre soffrivo già fortemente la sete e la fame”.
Il racconto sulla fame e sulla ragazza che lo ha “salvato”: “In effetti mi davano da mangiare una sola volta al giorno sempre lo stesso riso e fagioli rossi e da bere solo 3-4 bustine d’acqua (circa due bicchieri) al giorno rischiando una pericolosissima disidratazione. In 23 giorni ho perso 11 chili. Sentivo che le forze mi venivano a mancare e sentivo il bisogno di zuccheri e vitamine. A questo punto il ricordo mi riporta ad un fatto straordinario e dolcissimo. Un giorno mentre mi stavano portando a lavarmi (???…) sono quasi svenuto e mi sono lamentato con i miei carcerieri perché così continuando sarei morto “inutilmente”. Al mio rientro in “cella” una ragazzina che immagino giovanissima, anch’essa rapita, dalla stanza attigua alla mia, mi passò, sotto la lamiera che ci divideva, una scodella con del latte, zucchero e fiocchi d’avena salvandomi (almeno credo) la vita. Prego Iddio di dare gioia e vita serena a questo Angelo salvatore che, a partire da quel giorno, divideva con me il suo pasto. In effetti, a me ed al mio compagno di prigionia, non davano altro che il riso mentre nell’altra stanza passavano anche la zuppa abbondantemente condita e ricca di energia”.
“Credo di immaginare il perché di questo diverso trattamento. Volevano affermare la loro rivincita sulla storia. I loro antenati schiavi conquistarono la libertà con la violenza trucidando i loro carcerieri francesi più di 250 anni orsono. Oggi erano loro che “possedevano” uno schiavo bianco da fare soffrire e godevano nel vedermi pietire un po’ d’acqua mentre loro giocavano a puntarmi la pistola alla tempia gridandomi “ué blanc, pum, pum, pum” simulando di spararmi. La paura era tanta e, visto che erano spesso drogati ed ubriachi, temevo che avrebbero potuto perdere il controllo da un momento all’altro uccidendomi così per il loro solo piacere. La verità é che loro sono molto più razzisti di noi, mentre noi pensiamo che il razzismo sia solo nella direzione da bianco verso nero. Non é così e penso che se ne dovrebbe parlare in maniera più approfondita”.
Calì prosegue: “Ho pregato molto durante la mia prigionia. Per debolezza, per fede o per convinzione ho riscoperto il piacere di riaccostarmi a Dio trovando conforto e speranza. Mi sono ripassato tutte le preghiere che da tanto non recitavo e che mi hanno aiutato a superare momenti terribili. Mi sono ricordato pure dell’Angelo Custode forse nel momento in cui qualcuno si stava prodigando per me. È stato comunque molto bello ed importante questo mio ritorno al contatto con Dio. Così soffrendo giorno dopo giorno, al 23° giunse finalmente la liberazione e trovai ad attendermi i miei due angeli custodi mandati dal Governo Italiano con il coordinamento dell’Unità di Crisi della Farnesina che con grande umanità e professionalità mi hanno restituito alla mia vita ed ai miei affetti più cari. Non li dimenticherò mai ed a loro sarò sempre grato e riconoscente come sono grato e riconoscente al Governo Italiano che, a prescindere da qualunque valutazione politica, ha saputo e voluto impegnarsi per salvarmi la vita. Dopo 50 anni in cui, per lavoro, ho girovagato per il mondo intero, posso dichiarare di essere fiero ed orgoglioso di essere italiano. La mia gratitudine alla società BONIFICA S.p.A. per la quale lavoro da quasi 4 anni ad Haïti per la direzione lavori di una strada molto importante finanziata dall’Unione Europea. Tutti mi sono stati molto vicini a cominciare dall’altro mio Angelo Custode, l’Amministratore Unico, a cui mi lega ormai un sentimento di profondo affetto e devozione sincera”.
Un messaggio lunghissimo, che nella bacheca di Vanni Calì continua ancora, ma quanto riportato fin qui rende l’idea della sofferenza e della forte gioia vissute entrambe sulla propria pelle. Una tempesta di emozioni in grado di colpire quanti leggono le sue parole adesso.
Fonte foto: Facebook, Vanni Calì