Storia che (non) insegna.

Storia che (non) insegna.

QUESTO ARTICOLO FA PARTE DEL CONCORSO DIVENTA GIORNALISTA, RISERVATO AGLI STUDENTI DELLE SCUOLE SUPERIORI DELLA PROVINCIA DI CATANIA.

Sarno, prima metà del XVIII secolo – I tecnici della corte dei Borboni, giunti sul territorio campano, avevano compreso che l’area che si trovava alle falde del monte Saro era una zona ad elevato rischio idrogeologico. Infatti il comprensorio del paese era formato da un substrato di base compatto, al di sopra del quale le varie eruzioni del Vesuvio avevano depositato strati successivi di piroclasti, sciolti e poco coesi. Per prevenire il rischio di una colata di fango gli spagnoli decisero di piantare degli alberi di faggio, ad alto fusto, ben saldi nel terreno. Lo sviluppo economico non aveva ancora causato un aumento della richiesta, con conseguente innesto delle colture più redditizie a discapito di quelle che garantiscono la sicurezza dell’uomo.

Sarno, seconda metà del XIX secolo – All’indomani dell’Unità d’Italia i Savoia si disinteressarono della questione campana, fecero sradicare il faggio borbonico e lo sostituirono con il nocciolo, pianta dalle radici poco profonde, le quali erano incapaci di mantenere uniti i due terreni. Inoltre questi alberi continuavano a bruciare al minimo rialzo delle temperature, poiché circondati da vegetazione ruderale.

Sarno, 6 maggio 1998 – Nel pomeriggio del 5 Maggio l’aumento del livello dell’acqua aveva avvertito dell’imminente tragedia. Dopo la prima frana, un altro cedimento, causato dalla pioggia che cadeva copiosa sul terreno, travolse le case. Sui paesi della zona si abbatté un’onda di detriti che giunse a Sarno, causando la prima vittima (Roberto Serafino, 9 anni). Nonostante i soccorsi tardarono, presto i primi feriti arrivarono all’ospedale Villa Malta. La tragedia si protrasse per tutta la notte. L’ultima colata giunse fino alle cliniche di assistenza sanitaria, travolgendo medici ed infermieri. Il bilancio, considerando che la catastrofe poteva essere evitata, fu sconvolgente: 160 morti, 360 feriti e più di 1000 sfollati.

Sarno, 6 maggio 2020 – Dopo il 98’ fu realizzata una struttura costituita da una rete di canalizzazioni in cemento e un sistema di bacini artificiali, che avrebbero limitato l’espansione di una nuova colata: un impianto costato oltre 400 milioni di euro. In una Campania corrotta e consumata, specchio dell’Italia, si assistette alla nascita di un’altra opera incompleta: fino ad ora nessuno si è occupato della manutenzione della struttura per mancanza di finanziamenti, e così quelle vasche sono diventate una discarica abusiva. Legambiente ha proposto di delocalizzare gli edifici presenti nella zona, in particolare quelli abusivi. Ma se questi non verranno abbattuti non sarà possibile tentare un approccio che tenga conto degli aspetti ecosistemici.

La tragedia di Sarno fa riflettere: la storia insegna e non insegna, dipende da quanto siamo disposti ad ascoltarla. Solo la memoria storica, la conoscenza e il rispetto dell’ambiente potranno garantire un futuro sicuro alle nuove generazioni. “Noi siamo come nani sulle spalle di giganti” (Salisbury su Chartres).

Lorenzo Zappalà IV G – I.I.S. “Concetto Marchesi” – Mascalucia (CT)