L’ora scura possiede un’atmosfera sconosciuta al primo ingresso del nuovo sole. Quando la dimensione notturna sta per crollare nel suo appartamento senza pareti, da qualche parte una penna interroga il potere virtuoso nascosto agli estranei. Nato nella Grande Mela Peter Cameron, protagonista assoluto dei suoi personaggi senza nome, è il primo a volare oltre l’immagine costruita qualche minuto prima.
In “Cose che succedono la notte” (Adelphi 2020), la verità siede e aspetta il suo tempo definito nell’ordine noto per il suo rigore, primo, plateale segno di una morte in anticipo. Succede che le basse temperature siano consone a una storia di un uomo e una donna senza nome su un treno immerso nella neve. Nel bianco l’anonimato si mantiene protetto, sfuggente al viaggiatore tradito da una mappa.
La donna è sempre più vicina all’ultimo cielo terreno, la malattia la consuma nel corpo eppure la corsa verso l’ultimo bene non ha ancora smesso di crederci. Si chiamerà Simon, sarà il figlio adottivo di una coppia newyorchese che ha vissuto l’incubo della sterilità e adesso si confronta con il dramma della malattia di lei.
“Ricorda, tutti ci sentiamo così. Viviamo in un’epoca buia, nessuno riesce a trovare la propria strada. Procediamo a tentoni, come i ciechi. Somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile. Noi non siamo migliori. […] Ma ci sono cose peggiori dell’essere ciechi e del procedere al buio, cose molto peggiori”.
Niente può alleggerire il peso dell’atmosfera di ghiaccio che ruota intorno e allaga nei silenzi artefici di distanza. Lui e lei sempre meno loro, vivranno da separati insieme avventure improbabili in un albergo gremito di figure alquanto surreali. Se non fosse una solida costruzione il Grand Imperial Hotel sarebbe una giostra frequentata da identità sopra le righe con il rischio di perdere la radice della ragione già fortemente compromessa. C’è il loquace di turno, il collezionista di malinconie incollate alla pelle come sanguisughe insaziabili, una diva d’altri tempi porta a lavoro le labbra davanti a poltrone vuote di applausi abbandonati all’oblio di un calendario ammuffito.
“Qualche istante dopo la donna disse: Resto sbigottita davanti a una tale profondità di sentimento. Sentimento d’amore, immagino. O forse non sarà amore, ma commuoversi fino alle lacrime… Quando si smette di provarli, ci si dimentica che i sentimenti esistono, che le altre persone effettivamente li provano. L’amore, per esempio. Forse sarà una cosa dovuta alla vecchiaia o forse i sentimenti, come i muscoli, si atrofizzano. Penso proprio di sì, almeno nel mio caso. Ecco perché continuo a esibirmi, anche se è difficile che venga a sentirmi qualcuno”.
Alla ricerca di attenzioni peccaminose inquieta non poco l’uomo d’affari posseduto dal male, e poi lui, fratello Emmanuel, la punta dell’iceberg di un romanzo votato alla disomogeneità dei ghirigori della storia. Guaritore ma non troppo, Emmanuel si amalgama bene agli elementi atterrati sulle pagine per dare filo da torcere a un ingorgo narrativo. Quasi obbligato resta il dubbio se il progetto originale di Cameron abbia subito variazioni durante la tormenta di neve o se l’equilibrio messo a dura prova dai tacchi a spillo esistenziali sia stato causa ed effetto del torbido incastro.
Personaggi senza nome collegati da un’affinità emozionale che riconosce in ciascuno l’alleato di compimento dell’altro, soprattutto se viene puntato il primo piano sul territorio delle emozioni. Era logico che accadesse, considerando che l’amore infilzato da spilli si ritorce in un odio richiamato in pieno servizio.
Quel che deve succedere può arrivare in ritardo all’appuntamento fissato in tempo di pace, poi però il dramma esce allo scoperto da rapinatore di luce. Chi salva chi non è dato saperlo in prima lettura. Lo scorrere del tempo trova risposte impensabili nel raggio di giallo colore che non ha mai smesso di molestare la notte.
Lui, lei e gli altri, come burattini manipolati dal lato oscuro di Cameron imploso per chissà quale motivo e che adesso ha trovato casa nel covo di spine. A tratti lo si scopre disperato, in preda all’euforia indotta dalle mutazioni dell’ambiguo sè. Come se non bastasse, risulta complesso dare un’interpretazione univoca alle espressioni dopo una virgola di seconda mano.
La narrativa di Cameron si propone lenta al cambiamento, fatica a chiudere un’immagine stanca di ripetersi nell’avanzamento della storia, tra un effetto incantato e una necessità pigra invoca una mossa alla staticità del racconto. Sulla base di un tale modello espositivo ne consegue che l’analisi strutturale del romanzo soddisfa un esito tra l’immaginario e un’assurda realtà esistenziale.
“Poggiò il bicchierino di acquavite e si lasciò di nuovo andare sullo schienale. È tutto così triste, alla fine.
Triste?, chiese l’uomo.
Sì, triste. Prima o poi vanno tutti a letto, dico bene? Sono cose che succedono la notte. Le persone spariscono, sempre che ci siano mai state. La vita è orrenda, infame, come e più del tempo”.