I giornalisti della redazione del the Guardian sono riusciti a mettere le mani sui “Facebook files”, ovvero una mole sterminata di archivi dove vengono conservate le immagini bannate dai moderatori del social network.
Ebbene, cifre alla mano, le immagini di “revenge porn”, letteralmente “porno vendetta”, sarebbero circa 54 mila ogni mese. Soltanto a gennaio 2017, sulla piattaforma di Zuckerberg sono stati registrati 2.450 casi di ritorsione sessuale al fine di estorcere denaro e sono stati bloccati 14 mila account da cui era partito materiale pornografico e pedopornografico; ma c’è di più: le tanto criticate, quanto mai apprezzate dirette di Facebook sarebbero il canale principale attraverso cui vengono veicolate immagini esplicite.
A marzo, negli Stati Uniti, una 15enne è stata violentata in diretta live dai suoi aguzzini. In Italia, al contrario di Paesi quali Israele, Germania, UK, 34 Stati degli USA, Australia e Irlanda non esiste alcuna legge che tuteli le vittime.
«Nella fattispecie, non esistono penali relative al fenomeno – ha spiegato più chiaramente in un’intervista a la Repubblica l’avvocato Fulvio Sarzana – ma chi compie questi atti viene comunque indagato dalla Polizia Postale e può anche essere denunciato per diffamazione (art. 595 del codice penale) e trattamento illecito dei dati personali (articolo 167 del codice della privacy)». Tuttavia, a mancare, per l’avvocato è «la presenza di uno strumento che consenta, anche per via legislativa, una rapida rimozione delle foto, in modo tale da tutelarsi immediatamente ed evitare danni all’immagine».
In soccorso, quantomeno, arriva l’intelligenza artificiale dell’algoritmo di Facebook che, riconoscendo le forme di genitali e seni, è in grado di eliminare le relative immagini automaticamente, a patto però che la foto sia sufficientemente risoluta.
A Roma, nel settembre 2016, è stato presentato un ddl per l’introduzione dell’articolo 612-ter all’interno del codice penale. La nuova norma prevedrebbe da 1 fino a 3 anni di reclusione per chiunque sia colpevole della diffusione di materiale esplicito sui social network.
Nella proposta di legge c’è scritto: «Spesso accade che la diffusione di un certo tipo di immagini o video pornografici segua la fine di una relazione sentimentale e venga utilizzata come strumento di vendetta nei confronti delle vittime, che sono prevalentemente donne». Il problema, ormai noto dall’arrivo di Internet, è la “viralità” con la quale queste fotografie si diffondono perché, pur avendo rimosso l’elemento originale, qualcuno avrebbe potuto salvare il file nel pc per poi ricaricarlo in seguito su altri siti o portali in un processo interminabile. In alcuni casi, per la vergogna e vedendo distrutta la propria intimità le vittime arrivano a suicidarsi.
Considerato un «grave delitto contro la privacy» dal garante, il revenge porn è l’ennesima macchia del web dei nostri giorni e, più in particolare, del social networking. Da un punto di vista umano, la cosa più difficile da accettare, che si verifica nella stragrande maggioranza dei casi, accade quando a commettere il reato è stato l’ex coniuge, l’ex partner o qualcuno con cui si condivideva il letto.
Alberto Molino