“Dare la vita” di Michela Murgia

“Dare la vita” di Michela Murgia

In libreria dal 9 gennaio, il libro postumo di Michela Murgia ci consegna le ultime parole di una scrittrice strappata alla vita ai primi rintocchi del suo tempo maturo. Scomparsa il 10 agosto 2023 ha lasciato in eredità le elucubrazioni spesso non conformi al pensiero conservatore degli intellettuali. Pubblicato da Rizzoli, “Dare la vita” si propone come un pamphlet che raccoglie la summa viva e vitale di un’anima in costante rivoluzione che nemmeno la malattia è riuscita a placare un potente spirito di fuoco.

Il pamphlet è stato curato da Alessandro Giammei (uno dei suoi figli d’anima), professore di letteratura italiana all’università di Yale e membro della famiglia queer che i lettori di Michela Murgia hanno avuto contezza prima della sua scomparsa. Passeggiando tra le centoventotto pagine ci accoglie la voce di una donna che interroga il futuro con la consapevolezza che non ne farà parte. Prima di discernere sul punto fermo degli affetti è necessario sfidare la parentesi in cui vige un pensiero allergico alla manipolazione della coscienza. Il confine fissa un suo metodo di interpretazione ben disposto al dialogo dipanatore dei nodi che hanno messo in pericolo la ragione dell’amore.

Non domande, ma interrogativi per scuotere l’acqua cheta dello stagno prima che questa diventi casa perpetua di amebe senza una rotta. Con il corpo profanato dalla malattia, Michela Murgia non lesinava le dichiarazioni pubbliche sulla sua vita molto intima e poco privata. Ai giornalisti rivelò di aver comprato una casa con dieci letti per condividere i giorni, gli ultimi, con la sua famiglia queer. Uomini e donne senza un vincolo di sangue, ma tutti frutti dello stesso albero della vita piantato sul terreno fertile delle emozioni. Un tessuto di relazioni ricamate dalla scelta del singolo che, libero dagli schemi sociali imposti dal pregiudizio, diventa padre, figlio, madre, sorella di un unicum proteso al solo vincolo che conta: l’amore.

Perché l’anima non può aspettare che l’eredità biologica coincida con il flusso delle relazioni. Esiste una chiave di lettura forse meno cristallina ai più, ed è il contatto con la nudità dello spirito libero dai conformismi del finto bene. “Dimmi che ami quello che di me cambia di continuo, e io potrò continuare a darti quello che di me davvero non cambia: la voglia di sceglierti ogni giorno in modo differente, come diversa sono io ogni mattina quando apro gli occhi”.

La famiglia queer altro non è che un nuovo “modus vivendi” precursore di un assetto familiare stanco di fare a pugni con i sassi disseminati nel sentiero della vita. Il potere conservatore della “famiglia tradizionale” disapprova l’espressione di una normalità alterata della legge divina oltre che umana. Del resto, la personalità intellettuale della Murgia ha sempre esposto nella vetrina della scrittura e dei social un manichino di moralità fuori dagli schemi.

La sua penna ha sempre obbedito alla parola in difesa degli ultimi, di chi non ha mai avuto il consenso dello specchio. Essere madre perché una donna vuole che succeda e non perché ormai è tardi per dire no. Diventare madre nonostante il grembo non sia più fertile per accogliere una nuova vita in seno all’io libero di scegliere. Solo così la vocazione nata in noi e mai derubata durante le nostre crisi esistenziali, riuscirà a sopravvivere al sistema articolato secondo linee guida piene di rughe.

Il passo più delicato del saggio impone una sosta nella lettura di quanto sia stato difficile il riconoscimento della famiglia queer, con dei figli avuti da una maternità acquisita dalla scelta di perpetuare un legame nel tempo. La definizione dell’identità della famiglia queer è stata un vero e proprio travaglio di dolore fisico e psicologico di una madre sul letto di morte. L’evoluzione dei comportamenti sociali avanza verso il modello familiare dello “Ius Voluntatis“, ovvero sul diritto di scegliere una costruzione collaterale della famiglia (modello base). Quello che un tempo era etichettato come libero arbitrio, oggi, ma soprattutto negli anni ancora in gestazione, deve essere naturalizzato in una dimensione culturale modellata sui canoni degli affetti.

“Michela ha scritto fino all’ultimo giorno della sua vita. Aveva un libro da consegnare e lo ha consegnato prima di morire. Questo libro intendeva metterlo insieme in almeno sei mesi e si è trovata a doverlo chiudere, invece, in meno di sei settimane”.

sara