PALERMO – Gli omicidi di mafia hanno almeno tre elementi in comune. La sostanziale solitudine della vittima, abbandonata nella propria opera di contrasto alla criminalità organizzata. Il successivo tentativo di screditare la persona e, di conseguenza, il suo operato contro il fenomeno mafioso (in particolare, se si tratta di giornalisti, le loro inchieste). I depistaggi per tacere la matrice mafiosa dell’assassinio e far passare l’omicidio per un delitto passionale, o legato a debiti di gioco, o qualsiasi altra opzione che non riconduca il delitto ai mortali tentacoli della Piovra. Tre fattori per un unico obiettivo: cercare di condannare all’oblio chi ha osato contrapporsi a Cosa nostra.
È accaduto anche con Mario Francese, cronista giudiziario del Giornale di Sicilia di Palermo, freddato a colpi di pistola la sera del 26 gennaio 1979. Per vent’anni il silenzio è calato sul suo lavoro, sulle sue inchieste. Su quegli articoli che, come confermato dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, davano fastidio a chi aveva fatto del malaffare la propria ragione di vita. In un interrogatorio datato 15 dicembre 1993 il pentito disse: “Ricordo in particolare che il Francese non perdeva occasione per attaccare in qualunque modo la mafia e i soggetti a essa appartenenti”. Era proprio tra le righe che il giornalista firmava che andavano cercati movente, mandanti ed esecutori della sua uccisione.
Considerato uno dei primi giornalisti investigativi, Francese era alla costante ricerca della verità, che perseguiva consumando letteralmente le suole delle scarpe. Era tra i primi a recarsi là dove le notizie prendevano forma. Con cura e rigore ascoltava, studiava i dettagli. E analizzava attentamente ai fatti, narrandoli poi con uno stile asciutto, concreto ed efficace, ricco di dettagli e informazioni.
Era stato il primo a rivelare l’ascesa dei corleonesi e a chiamare “commissione” il vertice della cupola di Cosa nostra. E l’unico a intervistare Ninetta Bagarella, all’epoca fidanzata di Totò Riina e sorella di colui che anni dopo sarà il suo assassino, Leoluca Bagarella. Un articolo emblematico della professionalità di Francese, capace di sospendere ogni giudizio e lasciare spazio alle parole della sua inedita interlocutrice: “Io mafiosa? Sono una donna innamorata”.
Più volte il giornalista aveva sottolineato la ferocia dei corleonesi e scritto con insistenza della pericolosità di Riina e Provenzano. Perché, con lungimiranza e sapiente capacità di analisi, aveva compreso l’evoluzione in atto tra gli ambienti della criminalità organizzata e aveva messo nero su bianco quanto ricostruito sul sistema mafia. È per questo che le sue inchieste, ancora oggi, sono mappe grazie alle quali orientarsi nelle intricate vicende di stampo mafioso.
Nell’articolo del 30 ottobre 1975 “Al confino, latitanti o all’obitorio i protagonisti degli anni ruggenti” aveva scritto: “È una mafia che, dopo le passate esigenze, va evolvendosi di anno in anno nei metodi di lotta e di accaparramento di fonti di reddito. Ma non sono stati loro solo i protagonisti. Dietro le quinte, la mafia ha dei personaggi forse più potenti, forse più sanguinari, personaggi di cui non si è riusciti mai a conoscere né volti, né nomi”.
Perché ciò che contraddistingueva Mario Francese era proprio la sua capacità di fare nomi e cognomi dei soggetti coinvolti nelle indagini che svolgeva, senza mai tacerli, qualunque fosse il loro spessore criminale e il loro ruolo sociale. Come avvenuto in occasione delle stragi di Ciaculli e di viale Lazio.
Le sue inchieste, del resto, lo avevano portato a indagare su vicende che attestavano l’esistenza più che concreta e navigata di collegamenti tra la mafia e le istituzioni.
La più nota forse è quella legata ai lavori per la diga Garcia (oggi, per iniziativa di Legambiente Sicilia, a lui intitolata). Una gigantesca opera nella valle del Belice da 350 miliardi di lire di appalti pubblici inserita nel piano di ricostruzione dopo il terribile terremoto del ’68. Aveva cominciato a lavorare sul caso grazie alle informazioni che gli aveva fornito il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Che proprio per le sue indagini su mafia e appalti pubblici venne assassinato il 20 agosto 1977.
Era stato anche per onorare il suo sacrificio che a settembre Mario Francese aveva pubblicato l’inchiesta in sei puntate nella quale descriveva la rete di collusioni, corruzioni e interessi che si erano sviluppati per la realizzazione della diga (che sorgeva anche su alcuni terreni dei famigerati cugini esattori Salvo, legati al politico democristiano Salvo Lima). Francese era riuscito, inoltre, a scoprire che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina.
Poco dopo la pubblicazione, il caporedattore Lucio Galluzzo subì un attentato ai danni della sua abitazione. Anche il direttore Lino Rizzi trovò la propria auto danneggiata. Galluzzo lasciò il giornale, consigliando a Francese di fare lo stesso.
Nonostante le minacce e il rifiuto della scorta, però, il cronista era determinato a portare avanti il proprio lavoro investigativo e a far luce sui rapporti tra mafia e politica nel contesto della gestione degli appalti. Nulla poteva dissuaderlo dal suo proposito, da quella che considerava una missione. Senza mai fare un passo indietro, ma dando il giusto nome e peso a ciò che accadeva. Come aveva fatto in occasione delle uccisioni di due colleghi Cosimo Cristina (nel 1960) e Peppino Impastato (nel 1978) riconducendo subito entrambi i casi a omicidi di mafia e non, come si voleva far credere, rispettivamente a un suicidio e a un atto terroristico fallito.
Ma era solo Mario Francese e quando si è soli, contro mafia e poteri occulti, si muore. Con dedizione e precisione aveva prodotto un ampio dossier su mafia e appalti che attendeva, invano, di veder pubblicato. Uscì solo dopo la sua morte, come supplemento al Giornale di Sicilia. Quest’ultimo definito anni dopo dalla pm Laura Vaccaro nel corso della sua requisitoria “un giornale all’epoca non coraggioso come il suo cronista”.
La sera del 26 gennaio 1979 Mario Francese aveva finito il proprio turno in redazione e si era congedato dai colleghi con il tipico saluto che riservava loro: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”. Aveva parcheggiato la propria Alfa Romeo sotto casa, in viale Campania. Sceso dall’auto, Leoluca Bagarella lo raggiunse e gli sparò 6 proiettili con una calibro 38 alle spalle. Aveva 53 anni.
Il figlio Giulio, anch’egli giovane cronista di ritorno dal proprio giornale, era giunto sul posto quando le forze dell’ordine avevano già coperto il cadavere con un telo. Si era avvicinato al capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano, e, pensando di poter così fare il proprio lavoro, gli aveva chiesto chi fosse la vittima. Il poliziotto lo aveva quindi preso da parte e, stringendogli il braccio, gli aveva rivelato la tragica realtà.
Da quel momento era iniziato il calvario della dimenticanza per la famiglia Francese. In pochi rimasero vicini alla moglie Maria Sagona e ai figli Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe. Era stato sentenziato che “la mafia non c’entra nulla” e il caso archiviato.
Vent’anni di silenzio. Al quale, però, la famiglia non si era mai arresa. In particolare Giuseppe, che aveva 12 anni all’epoca dell’assassinio del padre, aveva recuperato tutti gli articoli firmati da Mario Francese. Li aveva trascritti al computer, realizzando così il dossier che ha consentito di riaprire le indagini.
Impossibile ricordare Mario Francese senza menzionare il figlio Giuseppe, “un gigante fragile cresciuto con il mito del padre, con il vuoto del padre”, come lo ha definito il fratello Giulio.
La devozione filiale di Giuseppe è stata il perno della sua esistenza. Attraverso la ricerca, la cura e la custodia degli articoli del padre ha cercato di restituirgli la giustizia che gli era stata negata dopo il suo assassinio. Il suo coinvolgimento è stato totale. La sua caparbietà ha portato il risultato sperato: la riapertura del caso, il processo (con rito abbreviato) e le condanne.
La sentenza di primo grado elogia così Mario Francese: “Straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni”.
Prima che la Corte d’Appello si pronunciasse, però, Giuseppe Francese non ha retto oltre il peso del dolore che da anni lo lacerava. Si è suicidato nella notte tra il 2 e il 3 settembre 2002, a 36 anni. Alla famiglia aveva regalato un diario “Con i miei occhi”, dedicato al padre: “Ricordo bene/ le tue mani bellissime e i tuoi occhi scuri/ pieni di bontà”. Riposa nella stessa tomba del padre, della quale per anni si era preso cura.
È anche grazie al suo incisivo impegno che sono stati condannati Riina, Francesco Madonia, Bagarella, Michele Greco e Bernardo Provenzano.
Queste le motivazioni della sentenza d’appello: “Mario Francese rappresentava un pericolo per la mafia emergente, proprio perché capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere le regole e la struttura di Cosa nostra”.
LAMPEDUSA - La nave Libra della Marina Militare ha preso a bordo alcuni migranti a sud…
#TgFlash del 4 ottobre 🗓 EDIZIONE SERA 🕒 • Festa nazionale delle Forze Armate, ad…
RAGUSA - Il Commissariato di Polizia di Modica ha eseguito un ordine di carcerazione emesso…
PALERMO - La Dea bendata bacia la Sicilia. Nell'ultima estrazione del Superenalotto di sabato 2…
SICILIA - Per la giornata di domani, martedì 5 novembre, la Sicilia sarà interessata da…
PALERMO - Dopo trent'anni di battaglie, è arrivato il momento di abbattere l'ecomostro Zotta, situato lungo…