PALERMO – La morte è il limite al quale l’uomo, attraverso esperimenti scientifici e progressi nel mondo medico, prova a dare un rimedio. Viviamo in un’epoca in cui il concetto di sopravvivere, forse, supera quello del vivere. La morte ormai non viene vista più come la semplice fine della vita, come un “traguardo” inevitabile che chiude il cerchio della nostra esistenza, ma come un’ombra che aleggia sulle nostre vite e che deve essere in qualsiasi modo combattuta. Il Coronavirus ha rafforzato ancor di più quest’idea di oltrepassare la morte, d’altronde non se ne può più di sentire casi di decessi e disperazione. Ma se da un lato è giusto provare a trovare un rimedio alle morti evitabili o “ingiuste”, come può essere quella di un essere umano giovane e in salute nel fiore degli anni, dall’altro l’accanimento contro l’inevitabile può portare anche le fasce più giovani a male interpretare questo concetto di lotta. Un’errata interpretazione del problema che, unita ai meccanismi di visibilità dei social (diventati ormai tra le prime fonti di opportunità per emergere e crearsi un ruolo all’interno della società moderna), può portare alla nascita di sfide viste come giochi, ma che causano una catena di emulazione e tragedie da non sottovalutare. Ridere per avere sfidato la morte e avere portato all’estremo i nostri limiti da essere umani è un’arma a doppio taglio.
Lo sa bene la famiglia della piccola Antonella Sicomero, morta ad appena 10 anni a causa di una challenge mortale che spopola da tempo sul social network più famoso del momento, TikTok. Nella piattaforma in questione il meccanismo di visibilità e popolarità è stato sfruttato all’ennesima potenza. Una grande platea con il minimo sforzo, mini-video di balletti, giochi e comicità, un’enorme mole di utenti minorenni e un risvolto della medaglia agghiacciante. Le regole ci sono, ma aggirarle è facile, a partire dal limite di età. Basta mettere una data di nascita falsa e il gioco è fatto. Antonella aveva 10 anni, ma doveva averne almeno 3 in più per poter far parte della community di TikTok; eppure appena due giorni fa si è legata una cintura al collo e ha provato a resistere per il maggior tempo possibile all’apnea. Si tratta della Blackout challenge, una vera e propria sfida alla morte, dove ragazzini appena maggiorenni o nella prima età adolescenziale cercano di superare i limiti del corpo umano irridendo, in qualche modo, la Nera Mietitrice.
Ma perché sfidare la morte?
A questa domanda ha risposto ai nostri microfoni la dottoressa Roberta Patanè, psicologa, che ha dichiarato a riguardo: “Più una cosa ci spaventa, più cerchiamo di raggiungerla per vedere se ci spaventa realmente. Ci avviciniamo così tanto per vedere se può farci soffrire effettivamente così tanto“. Il presupposto è già macabro di suo, se a questo si aggiungono le dinamiche dell’app social, che concede appunto visibilità (illusiva) in poco tempo, la “frittata” è fatta. “Più video fai, più cose estreme fai, più il video diventa virale e più vieni conosciuto. Se hai più seguaci vieni maggiormente considerato dai coetanei e diventa un’arma a doppio taglio. Da un lato ti fai conoscere, ma dall’altro più si va avanti con challenge estreme più il rischio aumenta“, prosegue la dottoressa. Ma il problema risiede anche nella non consapevolezza del pericolo. All’età di 10 anni, comunque, si dovrebbe avere la facoltà mentale di percepire il pericolo che può causare lo strozzarsi da soli. D’altronde a volte basta che vada un pezzo di pane di “traverso” e si finisce in ospedale.
Ma cosa scatta, allora, nella mente di chi si sottopone a sfide del genere?
“A mio modesto parere credo che si tratti della classica emulazione dei pari. Se una ragazzina o ragazzino vede altri video in cui altre persone compiono quel gesto e poi ci ridono sopra, perché magari arrivano a un determinato punto e non si spingono oltre, viene automatico per il soggetto emulare. Vige il principio ‘se lo fa lui posso farlo anche io’, come se fosse una sorta di sfida“, l’analisi della dottoressa Patanè. Una sfida, però, mortale, assolutamente nociva per il mondo dei social e, in primis, per la vita dei giovanissimi, che rappresentano il futuro del mondo. Inoltre, “sui social abbiamo meno possibilità di essere sorvegliati. È normalissimo tra i bambini sfidarsi per crescere e mettersi alla prova nel mondo reale, ma nel mondo digitale non ci sono limiti, si può giocare su tutto a qualsiasi livello di età. E anche a 10 anni non ci si rende conto che un soffocamento prolungato può causare quello che purtroppo è successo“, prosegue la psicologa.
L’emulazione che fa perdere di vista quel limite da non superare.
“Anche a me viene da chiedermi che cosa si trova di divertente nel privarsi del proprio respiro, soprattutto in un periodo del genere“, dichiara sbigottita la dottoressa Patanè. Il problema, però, va risolto alla radice a partire proprio dall’educazione “alle emozioni. I giovani sono persi in un mondo digitale senza emozioni, come se qualsiasi cosa guardino in quello schermo sia distante da loro“. Ma l’educazione non deve riguardare solo le emozioni e i bambini stessi che si affacciano e nascono in un mondo circondato dalla tecnologia e dal digitale. Secondo le parole della psicologa, infatti “è necessario che i genitori abbiano più controllo sui figli, non volendo colpevolizzare nessuno ovviamente. È importante educare non solo i bambini, ma anche i genitori stessi all’utilizzo di smartphone e tablet. Siamo cresciuti con la tecnologia e conosciamo le insidie, molto più dei bambini di oggi. Ritengo che ci debba essere una maggiore educazione digitale per gli adulti, che devono riconoscere i pericoli prima dei figli, i quali vedono tutto ciò che viene proposto negli schermi dei telefoni come un gioco e non riconoscono, dunque, il pericolo“.
Forse bisogna educare prima gli adulti, che i bambini, onde evitare tragedie del genere. Ma è pur vero che le stesse app, soprattutto in anni dove il dibattito sulla censura della violenza e del razzismo è ai massimi storici, dovrebbero applicare un maggior controllo sulle dinamiche di entrata, sui dati e sulla censura preventiva di chi propone challenge del genere, visibili anche a chi non ha percezione del pericolo e vede una cosa insensata come l’auto-soffocamento non come un tentativo di togliersi la vita, ma come un gioco.
La morte della piccola Antonella deve essere un insegnamento per tutti, dai genitori ai figli, passando per i gestori delle app. A poco servono le scuse lanciate da TikTok. Servirà invece a qualcun altro il gran gesto dei genitori della vittima del mondo social, i quali hanno deciso di donare gli organi. L’intervento di espianto è cominciato questa mattina ed è coordinato dal Centro regionale trapianti Sicilia. Il cuoricino della bambina va all’Ismett di Palermo. All’ospedale Bambin Gesù di Roma andranno una parte del fegato e un rene, l’altra parte e il pancreas (per un trapianto combinato). Il secondo rene è invece destinato a Genova.
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