In libreria da gennaio 2025, il nuovo romanzo di Paul Murray, famoso scrittore irlandese, è stato accolto dal pubblico italiano (e dalla critica) con un applauso corale all’indirizzo di un’opera straordinaria.
Seicento pagine presentano un romanzo tradotto da Tommaso Pincio, scrittore, dizionario vivente di Francis Scott Fitzgerald e critico esperto di letteratura nordamericana, che sono state oggetto del consenso di un’opera che, per il Washington Post, The New York Times e The Guardian, è stato senza dubbio il libro dell’anno.
Nelle librerie italiane, “Il giorno dell’ape” viene accolto con l’entusiasmo riversato nelle recensioni a cinque stelle, nonché dai prestigiosi premi ricevuti a pochi mesi dalla pubblicazione: il romanzo è finalista del Premio Strega Europeo 2025.
La storia di una famiglia contemporanea entra nell’altrettanta quotidianità del lettore, assorbito dalle cronache multitasking esposte con positiva leggerezza. Non serve una regolare lettura del calendario astrologico per definire l’ultimo bollettino dei progetti messi a punto con scrupolo e concentrazione. Il passo falso si nasconde dietro l’angolo, nonostante le fasi della luna e l’allineamento dei pianeti abbiano confermato una brillante processione di ore.
Dalle congiunzioni astrali hanno imparato ad averne piena consapevolezza tutti i membri della famiglia Barnes, nessuno escluso, caduti nella rete dell’imprevisto privo di istruzioni sulle vie di fuga. Il fallimento si presenta senza preavviso, causando intemperie di ogni tipo sotto un sole testimone delle rispettive reazioni.
Dublino, sinonimo di verde natura, ospita in un piccolo paese della campagna le vicende dei Barnes, a partire da Dickie, padre e proprietario di una concessionaria Volkswagen avuta in eredità, nonché sponsor ufficiale della squadra locale di calcio.
Il fasto prodigo di un imponente sé regna impavido prima di ogni sconfitta.
All’improvviso, la vita di Dickie rotola veloce come un tappeto in cima a una scalinata. Il tracollo, il fallimento dell’azienda, trascina con sé persone e suppellettili in un substrato di indifferenza che nessuno cercherà mai. Sarà tempo di rinunciare al bene che superfluo non è mai stato, un andirivieni di pensieri malsani e svendite di cose di casa con la parola d’ordine: “catastrofe”.
L’ala femminile della famiglia segnala la presenza di una madre e una figlia, un doppio passo per due destini impiastricciati con schizzi di colore. Imelda, madre e moglie di Dickie solo perché il cognato Frank è ormai anima e non più corpo. Imelda dagli occhi verdi, ossessionati dal lusso senza valore, mentre in sottofondo una fascia da ex Miss Irlanda coinvolge il capriccio del sogno.
Imelda è una donna sulla zattera del suo matrimonio, a rischio di un naufragio annunciato. Bellissima Imelda, è tutto qui il suo valore, preso di mira dalla ruggine degli anni.
“Per lei la ricchezza era un travestimento che andava rinnovato di continuo. Spendere era diventato il carburante che alimentava l’illusione, la grande macchina che la portava via dal passato“.
Cass e Pj sono figli che completano il ritratto di una famiglia borghese ma non troppo. Giovani infelici, tutto nella norma di questo secolo prodigio di solitudini collettive. Infelici come tutti, senza che nessuno sappia del nodo di cemento in gola, infelici nel silenzio la cui causa è nota a tutti ma nella lingua di nessuno.
“Forse ogni epoca ha un’atrocità intrecciata nel suo tessuto. Forse ogni società è complice di cose terribili e solo dopo riesce a fingere di non saperlo. Immagino che chiunque lo vorrebbe. Essere come gli altri. Ma nessuno è come gli altri. È questa la cosa che abbiamo in comune. Siamo tutti diversi, ma pensiamo tutti che gli altri siano uguali, disse. Se ce lo insegnassero a scuola, il mondo sarebbe un posto più felice, credo“.
Il sadismo di Murray insegue l’ombra dei Barnes colti nel naufragio economico, prestanome di una contagiosa crisi d’identità. È un ritrovarsi dentro le miserie del mondo, a confronto con fragilità che non hanno mai vissuto l’oltre del giardino di quiete. Questo adesso è l’unico tempo che conta. L’alba promessa delle prime ore del giorno non è mai sorella del burrascoso tramonto.
“Una volta che getti la maschera, tutte le altre maschere diventano trasparenti e ti accorgi che, sotto le peculiarità e le stramberie individuali, siamo tutti uguali. Siamo uguali nella diversità, nello star male per la nostra diversità. O, per metterla in altri termini, siamo espressioni diverse di una vulnerabilità e di bisogni uguali per tutti. È questo che ci unisce. E quando lo avremo riconosciuto, quando ci vedremo come una comunità di differenze, quelle stesse differenze non ci definiranno più. Sarà allora che potremo cominciare a lavorare insieme e cambiare le cose“.
Paul Murray frena l’inchiostro sui quattro protagonisti dalle caratteristiche caratteriali messe in discussione da un legame affettivo in cerca d’esilio. Il disagio familiare trova radice nell’incomunicabilità del quoziente intellettivo, indebolito da sentimenti di rabbia costretti alla convivenza.
Una realtà così amara viene esibita con un velo di ironia marcata, a motivo della percezione di un’esistenza precaria acquisita con strumenti alternativi: il primo passo verso la prospettiva del cambiamento.
Famiglia e società soddisfano la carità di luce, dietro condizione che la sorgente di calore sia preghiera del singolo smarrito nel sottobosco delle sue pochezze.
Non è raro che la vita istruisca le crepe dei castelli di sabbia creduti maglie di filigrana dorata. Il mito dell’apparenza ha le ore contate. È sufficiente un minuto di candida essenza.