La negatività già nel titolo. L’attenzione si prepara ad entrare nell’atmosfera di una vita al centro di una costellazione contraria, tutte le stelle restano spente malgrado siano avvolte da un firmamento vicino all’incanto. Giulia Caminito è una giovane scrittrice italiana che, con la sua narrativa incisiva, ha già ricevuto il Premio Berto, il Premio Brancati, il Premio Bagutta.
Il 2021 è stato l’anno della rivelazione, con il romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” si è classificata tra i cinque finalisti del prestigioso Premio Strega. La penna che modella il romanzo è incaricata di rovesciare sul foglio l’intimità arrabbiata di un’adolescenza con un solo nemico, il mondo.
L’ alba del duemila è incolore, non promette perché sa che non potrà assicurare la corsa a piedi nudi sul giardino dei giorni, lunghi steli di fiori non ancora nati e già appassiti. Gaia, la protagonista, chiede la penna in prestito a Giulia Caminito per disinnescare le porte sbarrate del labirinto in cui soffoca le sue ore. Non è sola. Antonia, sua madre, incide la sua presenza con dolorosi punti di sutura alle virgole ferite della figlia, un blando conforto in rari spifferi d’aria.
Le ingiustizie logorano pelle e vestiti, nessun sarto disponibile armato di ago e filo per rattoppare il disastro. Gaia schizza lapilli incandescenti sulla famiglia incapace di aggiustare la voragine del suo inferno, Gaia bambina, Gaia adolescente, Gaia sopra una furia di giostra con i capelli al vento e le vene contratte. Rabbia che spodesta il dolore, il suo viso annegato non ha mai conosciuto mani accoglienti, da nessun stralcio di sillabe in fila è mai stato salvato.
Antonia ha quattro figli e un marito invalido, lavora giorno e notte affinché la sua famiglia non precipiti nel burrone della povertà, strisciare come un serpente affamato porta a cancellare ogni scampolo di dignità già azzannato dalle miserie umane. Gaia è solo il numero di una tabellina domestica che non moltiplica e non raddoppia. Divide e sottrae sogni manomessi dalla croce di un destino riverso a terra, il passante guarda e non soccorre. Il nido di emozioni culla esplosioni di rabbia sorda al richiamo di freni calmanti. Vulcano sputa livore sull’orto di casa ostinato a dar voce a erbacce e spine, Gaia grida dal suo tetto di povertà tutta la pena di stare al mondo.
Gaia, Antonia e il lago. Due protagonisti in primo piano si accompagnano al terzo attore inclusivo di un sogno in comune: il mistero delle acque del lago di Bracciano, coprotagonista e cornice della storia di Giulia Caminito, custode inconsapevole di un segreto. Che sia mito, che sia leggenda, un girotondo di voci accerchia l’arcano del lago. Un presepe nei suoi fondali, diceria o verità?
Se uno strano tesoro c’è, è sicuramente lo scheletro di una felicità sulle labbra a curva serena giorno e notte, fino a quando sfinito dal carico di sole corre a giacere sotto il filo d’acqua di un lago mai stata dolce.
“Cosa accade se in un lago butti insieme una persona buona e una cattiva, qualcosa si contamina, qualcosa viene sciacquato via, qualcosa si mescola e s’assorbe…”. “Ci hai mai pensato all’acqua? Dicono acqua dolce, ma è una bugia. Questa acqua ha il sapore della benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco”.
Siamo al cospetto della storia di una generazione difficile eppure l’indifferenza del mondo sembra non farci caso, è quasi norma nata da consuetudine scavalcare il cadavere senza chiedersi perché sia morto. Il fiume di lacrime sfocia nel lago dalle acque putrefatte da ciò che non è stato, amara l’obbedienza di Gaia simile a uno stagno paralizzato dall’eco di una sorgente sprecata.
“L’unica figlia femmina deve saper studiare, eccellere, andare all’università, diventare medico, ingegnere, entrare nella finanza, pubblicare romanzi e soprattutto leggere, compulsivamente, senza possibilità di tregua”.
Una famiglia ai margini di una società colpevole di lasciare tasche vuote e disperazione, piccola Gaia inghiotte le scosse della vita avara di vita, sirenetta infelice ad un passo da un lago da cui riemergere oppure l’urgenza di un mare dove affondare, a bracciate folli l’alga avvelenata rischi d’incontrarla.
Come un automa la ragazza risponde al comando materno sorretta dal muscolo estraneo alla meraviglia del cuore, picchia forte il rumore del battito quando si confonde con un rintocco ripetuto milioni di volte.
“Io respiro forte nel casco, ingoio rabbia, tutta quella che ho tenuto celata, quella che ho travestito per le grandi occasioni, quella che ho guardato ballare a distanza, quella che m’hanno vietato e che invece mi appartiene e voglio coltivare, sento il collo appesantito, le mani calde, doloranti”.
Le mancanze sembrano avere un torto insopportabile, il tetto di periferia in prestito dal comune, i vestiti usati, nessun televisore, i libri sì, ma dopo la tessera della biblioteca, il disagio economico trascina con sé un dramma esistenziale casa di sfogo della violenza generata dalla rabbia incapace di vincere il fallimento.
“I miei pensieri fanno crescere voglia di guerra e di vendetta, è finito il tempo in cui ero indifesa, ho capito parecchie cose ormai: so sparare, so picchiare, so maltrattare e so prendere a baci”.
Gaia scrive per sé una rassegnazione ribelle comune a tutti, quanti di noi abbiamo vissuto un giorno del suo giorno? Fette di solitudine distribuite a colazione sul tavolo come pane appena sfornato sfamano una famiglia, sedia accanto a sedia, con un equatore in mezzo. Fuori dalla porta il lago ascolta il crepitio degli affanni in ginocchio sulle sue acque malsane, come testimone alleato ospita nel sommerso le scorie di amori e amicizie labili, la privazione siede a capotavola per condividere la fame di famiglia.
Lontano dal Premio Strega, il romanzo di Giulia Caminito rimane sospeso in un equilibrio inspiegabile, il futuro di Gaia dov’è? Manca la foce del fiume che per chilometri si è prodigato a elargire corde di rabbia e rancore determinate a vivere nel groviglio. Accurata la descrizione del più pallido sintomo della malattia ma assente ogni tentativo di cura.
Tanta sofferenza si arrampica per tortuose corsie di pagine alla ricerca di un camice bianco imboscato nel suo angolo mediocre. Tanta impotenza, nemica del dolce riparo di una carezza sulla superficie di un lago nascosto tra le pieghe dell’anima.
In disparte, da brava allieva, la penna esegue il dettato di una ragione nervosa la cui reazione è indegna di abitare lungo il perimetro del lago mai dolce, eppure specchio che ha sempre garantito un riflesso a due passi dalla croce. La quarta di copertina di fine storia sigilla il dubbio: Gaia sarà in grado di evadere dal suo carcere in collera?
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