ITALIA – “Ti faccio fare la fine di quella là“. È con questo più che discutibile riferimento alla morte di Giulia Cecchettin che più di una donna di recente è stata minacciata dal suo partner.
In diverse parti di Italia sono scattati i primi campanelli di allarme e, a quanto pare, nemmeno la Sicilia si è risparmiata: pochi giorni fa a Priolo Gargallo (Siracusa) un 64enne avrebbe minacciato l’ex compagna dicendole: “Se non torni con me fai la fine di quella in tv“.
Questo genere di espressioni, usate ultimamente da diversi uomini, ci induce inevitabilmente a riflettere sul preoccupante impatto che un femminicidio tanto discusso come quello di Vigonovo ha su una ristretta, ma comunque esistente, porzione della società.
Se parlare degli episodi di violenza è indispensabile perché solo affrontando l’argomento si può sperare in un cambiamento, non si possono comunque ignorare le conseguenze “malate” che potrebbero scaturire dalla costante ripetizione di un fatto di cronaca finito sulle prime pagine di tutti i giornali.
In queste circostanze è importante quindi anche considerare l’alto rischio di emulazione che un’esposizione mediatica tanto elevata può generare nei soggetti più pericolosi.
È intervenuta ai microfoni di NewSicilia la psicologa Roberta Patanè, che ha fatto il punto della situazione sulle cause di queste inspiegabili reazioni, soffermandosi anche su quali siano i rischi da non ignorare.
“In generale tutti gli esseri umani – ha esordito la dottoressa – sono portati a emulare ciò che vedono e questo accade da sempre. L’emulazione, tuttavia, può avere sia aspetti positivi che negativi. Se ultimamente va in voga un atleta di un determinato sport o una band musicale, non sarà insolito che i praticanti di quella disciplina o i seguaci di quel determinato genere musicale aumentino in maniera esponenziale”.
“Allo stesso identico modo – ha spiegato – se si sente continuamente parlare di cronaca nera e di omicidi e ci si ritrova in dinamiche disfunzionali simili, si può alimentare l’idea che non esistano altre soluzioni se non la simulazione dell’atto violento e che non esista altro modo di ‘porre fine’ a quella relazione disfunzionale“.
Facendo riferimento ai costanti rischi a cui sono esposte le donne che vivono situazioni difficili, l’esperta ha aggiunto: “La costante e massiccia riproposizione delle storie di violenza date dai mass media e dai social getta benzina sul fuoco di queste relazioni disfunzionali e soprattutto si insidia nelle menti di individui fragili e potenzialmente violenti che si ritrovano ad esplodere e a emulare“.
“Nella scelta di emulare questi comportamenti potrebbe incidere anche l’aspetto giudiziario“, ha affermato la dottoressa inserendo nel discorso un altro fattore che potrebbe rivelarsi particolarmente significativo.
“Sarebbe altamente necessario l’inasprimento delle pene, una maggiore tutela verso le donne, un processo di sensibilizzazione e di educazione sentimentale a partire dalle famiglie e dalla scuola fino alla società stessa al fine di combattere questa piaga sociale e di innescare un cambiamento nella cultura in cui siamo incastrati“, ha detto.
La psicologa ha poi spiegato, presentandola come possibile soluzione, che “ridurre il fenomeno della ‘spettacolarizzazione‘ è fondamentale perché analizzare nel dettaglio l’omicidio in sé o dedicare decine e decine di programmi televisivi alla cronaca nera può essere altamente controproducente soprattutto per quei soggetti psicologicamente fragili o già inclini a gesti violenti“.
“Ritengo che spiegare le dinamiche della relazione disfunzionale o svelare le strategie messe in atto per ingannare la vittima allo scopo di mettere in guardia il pubblico possa essere efficace ma – ha precisato – rendere il racconto minuzioso dell’uccisione con tanto di perizie e di approfondimenti o spiegare come avviene l’occultamento dei corpi, così come la ‘spettacolarizzazione’ del delitto stesso mediante l’utilizzo di attori possano essere elementi che aumentano di gran lunga il rischio di emulazione alimentando il fenomeno della cosiddetta ‘pornografia del dolore‘“.
“Bisogna rispettare alcune ‘norme‘ etiche e morali che impediscano a soggetti vulnerabili di reiterare gli abusi e le violenze di cui si parla. Sarebbe anche utile evitare di incentivare l’interesse morboso per ogni singolo dettaglio e soffermarsi sul rispetto della persona in qualunque ambito“, continua.
“Contrastare la violenza di genere ad oggi – ha aggiunto la dottoressa facendo un quadro generale sulle disuguaglianze nella società odierna – è una vera e propria ‘questione sociale‘ che riguarda tutte le famiglie e le generazioni ed è un fenomeno particolarmente difficile da contrastare perché si annida nella società e si manifesta silenziosamente nella vita quotidiana“.
“Le famiglie e la scuola hanno il compito di educare alle emozioni, così come la società, i mass media hanno l’obbligo morale di occuparsi di mantenere una semantica adeguata per questi delitti“.
“Non si parli più di ‘amore violento‘ o di ‘delitti passionali‘. Non devono e non possono essere giustificati i crimini violenti con ‘emozioni incontrollabili‘ o con i classici ‘raptus‘ perché si tratta di un fenomeno che si radica all’interno di una cultura che troppo spesso ha contribuito a creare un dislivello tra uomo e donna e una disuguaglianza di genere che incide fortemente su questi delitti”, prosegue.
“Quando si forma un legame di coppia, dovrebbe esistere una norma che impedisca ogni tipo di violenza ma – conclude la psicologa – un patto di questo genere può nascere solo ed esclusivamente all’interno di una generale cultura di non-violenza“.
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