ITALIA – Denunciare la violenza di cui si è vittima, è necessario? Certamente sì. È sempre sufficiente? A quanto pare no.
Sono sempre di più le donne che continuano – loro malgrado – a portare avanti una relazione “malata“. Per paura, certo. Ma purtroppo, come spesso accade, anche nell’illusione che il loro partner – colui che dice di amarle – possa finalmente cambiare, tenendo fede almeno a una delle tante promesse che, dopo aver dato il peggio di sé, continua costantemente a fare.
Se la maggior parte delle volte la denuncia rappresenta un primo passo verso la via d’uscita da un passato di violenza e terrore, in alcuni casi sorge spontaneo chiedersi se è abbastanza. La risposta a questa domanda l’abbiamo sotto gli occhi e la tocchiamo con mano ogni volta che nei notiziari sentiamo il nome di una donna che, pur essendosi in precedenza affidata alla giustizia – magari denunciando il proprio ex – è stata trovata in una pozza di sangue.
La parola alla presidente dell’Associazione Thamaia
Ai nostri microfoni è intervenuta la dott.ssa Anna Agosta, presidente del centro antiviolenza Thamaia Onlus di Catania, che ha fornito un’attenta analisi del fenomeno del femminicidio da un punto di vista giuridico.
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La legge italiana tutela adeguatamente le donne vittime di violenza?
“In Italia abbiamo un sistema ben strutturato e corposo. È cambiato tantissimo in questi anni. Non è che non ci sono le leggi, anzi: le norme ci sono, ma andrebbero ben applicate. Adesso con il codice rosso (legge 19 luglio 2019 n.69) la donna che presenta una querela deve essere sentita dal pubblico ministero entro 48 ore, quindi questo velocizza la fase cautelare, ma nonostante ciò assistiamo a un numero inconcepibile di femminicidi“.
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Ritiene che i provvedimenti previsti dalla legge a seguito delle denunce siano sufficienti o servirebbero misure più drastiche?
“Ogni caso ha una storia a sé e ha delle caratteristiche specifiche: in alcuni casi i provvedimenti emessi non sono sufficienti, in altri lo sono però molto spesso rimane imprevedibile la condotta del maltrattante. Facendo riferimento al nostro territorio, mi viene in mente l’omicidio di Vanessa Zappalà, uccisa l’anno scorso. In quel caso era chiarissimo che il suo ex fidanzato fosse pericoloso e che la minaccia fosse molto concreta. C’era un sistema di controllo che lui aveva adottato nei confronti della ragazza: anche la magistratura ne era a conoscenza poiché nella macchina della vittima erano stati trovati strumenti per pedinarla, per ascoltare le sue conversazioni e, tra l’altro, quello che poi sarebbe stato il suo assassino era stato avvistato moltissime volte vicino all’abitazione della giovane. Nonostante la Procura avesse chiesto gli arresti domiciliari, il giudice ha deciso di limitarsi a emanare un divieto di avvicinamento che però non si è rivelato sufficiente. La storia di Vanessa ci ha scosso particolarmente perché lì è stata netta la responsabilità del giudice che evidentemente non è riuscito a fare una valutazione efficace dei rischi sottovalutando la situazione. È vero comunque che non sapremo mai cosa sarebbe successo se la magistratura avesse agito diversamente, ma in questo caso nonostante la pericolosità fosse altissima, la misura cautelare non è stata adeguata. Per quanto riguarda quest’ultimo caso di Bologna, Alessandra Matteuzzi aveva fatto tantissime denunce perché subiva da tempo un pressante stalking da parte del calciatore. E ovviamente i magistrati hanno ritenuto che, trovandosi in Sicilia, Padovani non avrebbe rappresentato un pericolo per la donna. In base a quanto sto leggendo dai giornali, evidentemente non è stato considerato tutto quello che la donna aveva denunciato. Quello di Bologna è il 67esimo femminicidio nel 2022. Siamo arrivati a numeri veramente spaventosi“.
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Le donne con cui ogni giorno avete modo di confrontarvi ritengono di essere adeguatamente tutelate dalle misure cautelari o si sentono abbandonate a se stesse?
“Molte delle donne che si rivolgono a noi hanno sfiducia nelle istituzioni. Quello che ascoltano dai media non è confortante: molto spesso ancora la violenza viene minimizzata oppure le donne non vengono credute e questo rende l’esperienza della denuncia ancora più frustrante“.
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Cosa bisognerebbe migliorare per garantire maggiore tutela a chi decide di sporgere denuncia?
“Sicuramente quello che manca – e noi lo denunciamo da tanto tempo – è una formazione adeguata degli operatori che a vario titolo entrano in contatto con le donne vittime di violenza: mi riferisco in particolare alla magistratura, ai medici di Pronto Soccorso, alle forze dell’ordine e ai servizi sociali, perché una donna che subisce violenza è portatrice di numerose esigenze e bisogni. È necessario quindi che venga accolta da un personale che abbia competenze specifiche sul fenomeno perché altrimenti si rischia di minare totalmente il suo percorso“.
Il ruolo dell’Associazione Thamaia
La dottoressa Agosta ha anche fornito alcune indicazioni sul ruolo dell’Associazione, spiegando nel dettaglio in che modo le operatrici si impegnano a sostenere le donne che decidono di affidarsi al centro antiviolenza etneo.
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Quante donne si rivolgono a voi?
“Il nostro servizio prevede un’apertura telefonica di 16 ore settimanali. Accogliamo circa 259 nuove donne ogni anno e riceviamo circa 150 segnalazioni con cui intendiamo chiamate da terzi – cioè da amici, parenti della donna oppure operatori dei servizi – che magari entrano in contatto con una persona vittima di violenza e che quindi si rivolgono a noi per avere informazioni”.
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Come chiedere aiuto all’Associazione Thamaia?
“Ci si può rivolgere a noi tramite un numero telefonico. Risponde un’operatrice specializzata che accoglie la donna già al telefono e fa una prima valutazione del rischio, le dà le informazioni utili e nel caso in cui la donna si trovi in una situazione di emergenza la mette in contatto con i servizi del territorio“.
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Qual è la realtà con cui vi trovate quotidianamente a fare i conti e in che modo aiutate le donne che si rivolgono a voi?
“Attraverso la conversazione telefonica ha inizio un lavoro di ‘aggancio’ affinché la donna decida di prendere un appuntamento e venire da noi. In questo modo comincia il percorso d’accoglienza insieme a un’operatrice specializzata: si tratta di un percorso di consapevolezza in cui finalmente la donna è protagonista delle sue scelte e dei suoi desideri. Tutto questo lavoro lo facciamo rispettando la sua riservatezza e il suo anonimato: ogni donna può rivolgersi a noi non rivelando mai il suo nome, anche decidendo di non denunciare o di non separarsi. È chiaro che noi la sosteniamo affinché possa rivolgersi con fiducia alla giustizia, soprattutto se si trova in una situazione di pericolo per la sua incolumità: in quel caso la esortiamo a rivolgersi alle forze dell’ordine perché i centri antiviolenza non sono il pronto intervento, bensì fanno un lavoro collaterale a sostegno della donna. Poi attiviamo, oltre a quelle legali, anche consulenze lavorative perché alcune donne, a causa della violenza, possono aver perso l’impiego oppure non hanno mai avuto la possibilità di accedere al mondo del lavoro, perché spesso il maltrattante le costringe a non farlo, in maniera anche subdola: ‘Non ti preoccupare, porto io lo stipendio a casa. Tu pensa alla famiglia’, partendo dalla gelosia, per poi passare al possesso che a sua volta diventa controllo, fino a sfociare anche in violenza fisica o addirittura sessuale“.
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Che tipo di supporto offrite alle donne che vi chiedono aiuto?
“Va evidenziato che nel momento in cui le donne chiedono giustizia, sporgendo querela, oppure fanno presente al maltrattante – il marito, il fidanzato, l’ex fidanzato – la loro volontà di interrompere la relazione violenta, si espongono a una situazione di estremo pericolo: nell’arco di tempo che passa tra quando si fa la denuncia e quando viene emessa la misura cautelare, che richiede determinati tempi tecnici, noi – come centro antiviolenza specializzato – riusciamo a sostenere le donne anche con inserimenti in casa-rifugio o in generale con un allontanamento da casa“.
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Che consiglio vorrebbe dare a chi vive una situazione di violenza?
“Coloro che subiscono violenza non sono solo vittime. Si tratta di donne che vivono una situazione temporanea di disagio, dalla quale si può uscire: la violenza non è un destino. Si può dire ‘basta’ ma bisogna attivare una serie di strategie e competenze perché non tutti sono in grado di seguire e sostenere una donna che subisce violenza, soprattutto rispettandone la volontà. Alcune donne per esempio chiamano ma poi non si presentano, cominciano il percorso ma poi lo interrompono e tornano indietro, perché temono eventuali ritorsioni. Noi ribadiamo sempre che se le donne capiscono che qualcosa non va e che la relazione non è più paritaria, è importante che si rivolgano a noi per confrontarsi. Molto spesso la violenza non viene riconosciuta e sono proprio le donne che ci chiamano a minimizzarla: dare un nome e definire i comportamenti che poi rappresentano dei veri e propri reati è molto importante. Anche una prima telefonata potrebbe dare un ‘input’ alla donna che può decidere di intraprendere il percorso: magari non lo fa subito, ma con molta probabilità lo farà da lì a breve“.
Foto di repertorio