ITALIA – Coronavirus: è stata la parola dell’anno nel 2020. Continua a essere il centro della vita di ognuno nel 2021, a tal punto che ormai si parla di “nuova normalità“. È una normalità che, in realtà, tanto normale non è, ma che si sta lentamente (ma inesorabilmente) trasformando nella nostra quotidianità.
Nel 2021 si convive con l’ansia di non sapere mai cosa riserverà il futuro della pandemia e non c’è una realtà che non sia stata sottoposta a un processo di trasformazione quasi “da film”.
Ogni persona ha dovuto mettersi in gioco per adattarsi a una condizione inaspettata e complessa: “Viviamo da un anno e mezzo una nuova quotidianità. La pandemia ha rivoluzionato le nostre giornate, quello che facciamo, le nostre passioni, il nostro lavoro, la vita sociale, la vita personale e per molti perfino quella intima”, spiega la psicologa Livia Longo.
Covid, marzo 2020: l’anno zero della “nuova normalità”
“Dal famoso 9 marzo 2020, giorno in cui ci è stato comunicato l’inizio del lockdown generalizzato, è partito una sorta di anno zero. Da quel momento la nostra vita è cambiata. Il Coronavirus è diventato un pensiero costante: non si parla d’altro, si è vissuto in funzione dei Dpcm e ora dei nuovi Decreti. Si vive attendendo una semi-normalità“.
Normalità? È ancora possibile? Ci inorridisce l’idea di toccare qualcosa senza disinfettarla, ci preoccupa starnutire in pubblico, le foto di feste in grande e concerti con migliaia di partecipanti felici sembrano per lo più un ricordo. Di “prove di normalità” se ne sono fatte tante, ma in che misura si può parlare di vero ritorno a una vita (semi)normale?
Lo spiega Livia Longo, suggerendo di trasformare la preoccupazione in energia per plasmare una nuova “normalità” al meglio: “Il tornare a una vita pseudo-normale penso sia ormai utopico. Ormai il passato sta dietro. Dobbiamo ristrutturare un nuovo tipo di normalità, senza cancellare quanto accaduto, perché è impensabile far finta che non sia successo nulla. Sarà difficile, ma non impossibile. Qui è centrale la singola volontà di serenità, più che di normalità. È importante non pensare al passato come ‘al momento giusto’, ma piuttosto adattarsi al presente e far sì che esso sia quello giusto”. Un lavoro degno dei migliori architetti, per usare una metafora, che richiederà uno sforzo non indifferente.
I giovani, il futuro e il nuovo presente
A fare questo sforzo dovranno essere soprattutto le nuove generazioni, quelle che hanno ancora una vita davanti e che devono comprendere come e più degli altri che il Covid non deve essere per forza una fine disastrosa. Può essere l’inizio di qualcosa di nuovo, nel bene e nel male.
È anche vero, però, che sono proprio i più giovani (gli adolescenti in particolare) a portare il maggiore peso della pandemia nella loro quotidianità: “Di tutta questa situazione hanno risentito soprattutto i giovani, soprattutto quelli nella fascia 14-19 e i pre-adolescenti (11-13 anni). Hanno risentito del non contatto. I ragazzi hanno bisogno del contatto con gli altri nella strutturazione della propria identità e personalità. Per quanto Internet possa aiutare, non può essere sostitutivo del contatto fisico/reale”, spiega la psicologa Livia Longo.
La Dad, l’assenza di contatto sociale e le preoccupazioni per un futuro potenzialmente compromesso lasceranno un segno indelebile. Sta alla società, e soprattutto agli adulti di domani, però, decidere se questo problema definirà la fine della società o una reazione coraggiosa.
La “guerra” sui social, l’infodemia e il domani “oscuro”
Il futuro è importante, sì, ma in questo momento sono paura e smarrimento a farla da padrone nell’era Covid. Il bombardamento mediatico sul Coronavirus, la “guerra” social tra individui con opinioni contrastanti, l’informazione spesso (per fortuna non sempre) impreparata a gestire il carico cognitivo legato a un virus ancora ricco di misteri… Tutto questo è diventato normalità.
Più si diffondono contenuti falsi/parziali e/o arricchiti da fantasiose iperboli, più si alimenta l’emergenza. Non è per forza colpa di qualcuno in particolare, ma la troppa (dis)informazione rischia di avere un effetto distruttivo sull’equilibrio individuale e sociale. E solo un’azione mirata a una maggiore considerazione degli altri, senza “battaglie” ma solo con scambi di informazioni verificate, potrebbero risolvere il problema (il che, diciamo la verità, è probabilmente utopia adesso).
“Secondo me, una riflessione sul tema deve partire dalla considerazione del numero di informazioni che ci arrivano. Tutte le notizie sul Covid, sulle morte, sulle chiusure, sulle aperture, sui colori… Tutto questo non ha fatto che alimentare la paura costante del Coronavirus, come legna sul fuoco che arde tutti i giorni della nostra vita”, spiega la psicologa Livia Longo.
“Hanno perfino coniato un nuovo termine: infodemia. È stata creata una nuova parola proprio per la quantità di informazioni contrastanti e non accertate che venivano diffuse e diventano virali. Un lavaggio del cervello fatto alle persone, che spesso non vanno a controllare sui siti affidabili come quelli del Ministero della Salute”.
“Migliaia di informazioni, troppe. Questo, a mio parere, ha alimentato la paura e continua a farlo: la mancanza di chiarezza. L’uomo è un animale sociale, che ha bisogno di chiarezza. Viviamo in balìa degli eventi, in un equilibrio precario“, conclude la professionista.
Secondo la professionista, la condizione precaria in cui viviamo è “quasi contro natura“. E non ci sarebbero parole più adatte per descrivere la fase di incertezza che l’intero pianeta Terra sta attraversando.
Si è rivoluzionata la vita umana. La normalità è diventata anormalità, l’ansia del domani quotidianità, l’impossibilità di fare progetti un blocco per tanti.
Tra paura e incertezza: la reazione alla “nuova normalità”
Cosa fare, quindi? Fare in modo che il Covid decreti la fine di tutto? Attendere passivamente? Forse è reagire, non con violenza ma con forza emotiva, la soluzione.
Bisogna concedersi il potere di reagire, ma anche di plasmare al meglio la nuova realtà post-Covid per trasformare lo smarrimento in serenità rinnovata e custodita gelosamente, con la consapevolezza data dall’ultimo anno vissuto e con il vigore di chi ha bisogno di ripartire per sopravvivere.
Livia Longo, da professionista, sembra invitare proprio a questo tipo di reazione: “Rimanere rigidi produce una rottura. Dovremmo essere tutti più malleabili, come la plastica e non come il vetro. È il momento della resilienza, di adattarsi alla nuova normalità e fare in modo che diventi sempre più serena”.
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