AIDONE – Si dice che nella vita bisogna sempre cogliere l’attimo prima che diventi troppo tardi: è ciò che ha fatto un ragazzo di Piazza Armerina (Enna) decidendo di imbattersi in una nuova avventura in Africa.
Si tratta di Gabriele Virzì che, all’età di 31 anni, lo scorso gennaio ha deciso di spiccare il volo verso un ambiente culturalmente diverso da quello a cui siamo abituati in Sicilia (e non solo). Una decisione coraggiosa specie in tempi di Covid.
Gabriele è intervenuto ai nostri microfoni in collegamento da Tambacounda, città della parte orientale del Senegal, raccontandoci dal vivo la sua esperienza: “Io sono arrivato qui il 7 gennaio con un gruppo di missione con tre italiani e un gambiano attraverso l’associazione salesiana ‘Don Bosco 2000’, che si occupa di accoglienza. Serviva una risorsa umana in Africa e mi sono proposto di farlo un mese prima della partenza, facendo i vaccini e richiedendo il permesso dell’Ambasciata. Ho portato con me una valigia di medicine e caramelle. Ho passato un po’ di fasi, ero entusiasta ma poi è subentrata la paura dell’ignoto e di non tornare a casa. All’arrivo c’è stata la fase di adattamento, davo adito agli aspetti negativi tra cui il maltrattamento degli animali (ancora si usa la soma) e la sporcizia, poi ho scoperto il lato umano delle persone”.
La situazione in Africa
Gabriele ci racconta: “Non ci sono treni, per spostarti puoi farlo solo se sei abbastanza ricco da permetterti una macchina o tramite autobus strapieni di persone persino sul tetto, gente appesa anche nella parte esterna. Qualche mese fa un autobus girando una curva ha perso un equilibrio o sono morte decine di persone”.
L’ostacolo del Covid, il racconto della malattia
Il 31enne prosegue: “Io mi sono ammalato di Covid, mi hanno fatto un tampone all’inizio poi lo stesso ospedale non me ne ha fatti quindi ho aspetto oltre un mese per trovare un’alternativa. A un certo punto sono stato male e mi sono dovuto isolare per non contagiare, non sono stato io il paziente zero. Lì ci sono stati momenti di sconforto essendo lontano da casa e amici, senza cure adeguate, se fosse peggiorata la mia situazione non avrei avuto la possibilità di curarmi”.
“Poi qui non viene considerato il Covid come malattia poiché i casi sono pochissimi ma questo perché i tamponi sono pochissimi (circa 4 in una settimana nel mio ospedale in una città di 200mila persone), per molti il Covid non esiste e se tu ce l’hai o sei esagerato o una persona da evitare perché causa di un male sconosciuto. Qui inoltre il 75% circa della popolazione è sotto i 35 anni quindi la maggior parte è asintomatica e non va a farsi nemmeno il tampone. Dopo un mese sono stato contagiato e per un altro mese sono stato isolato in una stanza dove mi portavano da mangiare. Qualche farmaco, come il cortisone che mi ero portato da casa, mi è servito”.
Una nuova Africa dopo il Covid
Gabriele aggiunge: “Quando sono uscito ho visto l’Africa con occhi diversi. Quando mi vedono per strada urlano ‘uomo bianco‘, una cosa che in un secondo momento ho accettato. Loro pensano che sono venuto per aiutare, che sono ricco o comunque ho tante caramelle in tasca da dare ai bambini. Dell’Africa ho apprezzato l’accoglienza, se sorridi ti aprono la porta della loro casa anche laddove non parlano francese. Mi esprimo un po’ in francese un po’ nelle lingue africane che ho imparato, specie grazie ai bambini. La comunicazione non pesa, qui si fa con gesti, sorrisi, sguardi, azioni. Ricordo che quando sono arrivato era traumatico, i colori erano diversi, mi percepivo come corpo estraneo, guardavano le mani e vedevo che non c’entravano niente. Anche questo l’ho accettato dal terzo mese in poi”.
Qualche dettaglio sul cibo: “Riso e mille modi per farlo, fritto, in umido, con pesce, pollo, cipolle, arachidi. Ognuno di questo con nomi differenti. Poi ci sono spezzatini di carne o fegato con patate. Poi si usa molto una sorta di crêpes con uovo dentro”.
La giornata “tipo” e i progetti portati avanti
Il giovane si sofferma su quali sono le azioni portate avanti a Tambacounda: “Io mi sveglio all’alba preparando la colazione per i bambini che dovrebbero essere a scuola ma che chiedono qualche spicciolo. Chi si sveglia prima comincia, verso le 8 iniziamo la distribuzione sotto casa nostra. Piano piano abbiamo educato loro a lavarsi le mani, a fare la fila e non buttare nulla per terra. Ognuno ha un compito. Qualche volta andiamo nei villaggi e ci occupiamo del rapporto educativo e sanitario, come mancanza di infrastrutture, dispersione scolastica, materiale come un quaderno o un banco, oppure sulle possibilità che gli africani hanno di curarsi. Abbiamo a che fare anche con associazioni di madri o giovani che si danno da fare per il futuro della città, cioè fare rete all’interno del territorio per far sì che sia lo stesso africano a volere il cambiamento”.
Le realtà dei villaggi
“Ci sono anche le serate spensierate. Io vivo nella sede dell’associazione la cui struttura un tempo era una scuola e ci spostiamo nei villaggi ma non possiamo vivere là non essendoci elettricità o acqua potabile per esempio. Nei villaggi è una vita di prossimità, c’è un capo famiglia o villaggio, i parenti, le mogli che sono più di una, ci si aiuta a vicenda con ruolo determinati, per esempio le donne impastano e i mariti vanno fuori a prendere la legna. Bisogna capire anche come far passare le proposte, se si sbaglia a confrontarsi con qualcuno che non è una figura riconosciuta nel villaggio si creano invidie, il bianco deve bilanciare i rapporti con chi fa parte della comunità“.
“Per individuare le figure autoritarie, si capisce perché esse si vestono in maniera diversa con abiti pregiati o sfavillanti. Essenziale è un mediatore, siamo fortunati perché ci sono ragazzi che conoscono bene l’Africa e si sanno porre in una certa maniera con un messaggio comprensibile, altrimenti si rischia di deludere o dare false speranze perché siamo sopravvalutati. Da un momento all’altro ci potremmo ritrovare sommersi di richieste che esulano da ciò che facciamo”.
La figura della donna e il maschilismo
Gabriele continua: “La donna viene sottovalutata ma in realtà si dà da fare, se non ha i soldi va a lavorare mentre il marito dorme. Una donna si può fare valere, non è davvero sottomessa, se studia si libera potendo anche scegliere e poi sono molto sorridenti, urlano e fanno caciara per strada, non sono passive. Un marito può avere massimo quattro mogli contemporaneamente e questo è un po’ maschilista perché una donna non può avere più mariti“.
La nostalgia dell’Africa e l’idea di un ritorno
Il 31enne si sofferma su alcune sensazioni: “Il fatto del Covid mi ha fatto pensare di tornare per cure più approfondite e vorrei tornare anche riprendere delle cose a casa mia. Fino a quando mi sento rimango, credo che a giorni tornerò e poi magari ripartirò dopo. Sicuramente nel 2021 rimarrò con la testa progettando sull’Africa, una volta che si scopre un continente nuovo vorresti vedere come evolve. Per venire qui o ti metti al 100% in gioco o non te la vivi“.
“Mette un po’ di nostalgia pensare che le persone di quei villaggi spariranno dalla mia vita perché chissà se li sento dato che spesso non possono nemmeno fare le ricariche, chissà se sopravvivranno dato che molti muoiono e rimangono i più forti. Si tocca con mano la possibilità della malattia e della morte. Se tu vai loro non ti vedranno più, io ho portato una foto non trovando il proprietario della foto ma solo il bambino e tutta la famiglia è scoppiata a piangere perché la proprietaria era la madre che era morta. Attraverso quella foto loro rivivevano la madre, qui non si va al cimitero per vedere la foto del parente, un bambino di 2 anni non ricorderà il volto della madre”.
I valori raccolti dall’esperienza
“Il popolo mi ha trasmesso un senso enorme di laboriosità, le persone lavorano molto senza orari, e poi il senso spirituale. Ci si ferma tutti a pregare e tutte le difficoltà si sublimano nella fede. Mia madre è contenta e mio padre pure ma all’inizio era preoccupato. A me mancano gli animali, a volte li sogno pure. Una cosa che mi manca è il contatto con la natura, nella Savana qua è tutto giallo e pianeggiante, ci sono le spine e non sono spinto ad addentrarmi. Le colline dolci, i fiori di mandarlo e i campi di grano mi mancano. Ma magari potrei cambiare idea sul tipo di ambiente qua, però chiaramente mi manca la mia terra”.
Il messaggio conclusivo
Gabriele Virzì conclude: “Mi piacerebbe che tanti ragazzi siciliani ed europei facessero questa esperienza specie dal punto di vista culturale, poiché è possibile ritrovare un senso di comunità originario, l’aiutarsi a vicenda per esempio e pregare insieme è da vivere. Anche il senso di essenzialità bisogna recuperare, si è insicuri e tristi per cose che non ci servono affatto, anche in merito alla carriera, le ambizioni e l’alienazione che si vive in Europa, mentre qui è tutto più umano”.