Catania: il timore del grande salto

Catania: il timore del grande salto

CATANIA – Chiediamo venia per la battuta scontata: in pochi mesi si è transitato dal “salto della quaglia” a quella più realista del canguro. Non fa ridere più di tanto, ne siamo coscienti, ma è stato più forte di noi pertanto, “abiurata” la deriva verso la più classica, adesso anche un tantino usurata, battuta da Bar dello Sport, proviamo a riordinare le idee dopo la decisione del Comune di Catania di scegliere tra le varie candidature quella del gruppo Pelligra.

Su cinque proposte, alla fine ha vinto quella più corposa, più convincente, aggiudicandosi da subito la fiducia dei tifosi e poi, quasi per mutuata empatia, quella del Sindaco facente funzioni Roberto Bonaccorsi, dell’Assessore Sergio Parisi, e dei funzionari della Direzione Sport e Politiche Comunitarie.

Forse, il troppo dimenarsi per acquisire visibilità e cooptare fiducia, da parte di qualcuno tra gli altri gruppi concorrenti, non è stata la strategia vincente, anche se siamo quasi certi che questo abbia influito non più di tanto nella scelta finale. Di contro, riteniamo esagerato stare lì a criticare, anche in maniera aspra, le scelte di marketing per “pilotare” popolari simpatie, ognuno ha il suo metodo e sinceramente, dal vuoto da deserto del Gobi vissuto nelle aste precedenti, a ben cinque proposte oggi, è stato un tantino fuori luogo questo fare troppo gli “schizzinosi” per qualche proclamo in più, per qualche nome “civetta” magari un tantino stucchevole ma tutto sommato passabile.

Ci poteva stare, anzi riteniamo di diritto, e di fatto, queste iniziative pubblicitarie, un insperato banco di prova della raggiunta maturità di una comunità, come quella rossazzura, che ha saputo ergere un tetragono bastione di puro pragmatismo da opporre a un immarcescibile potere di attrazione del futile apparire. Posto un bel “closed” a tutto ciò, si riparte attingendo da una rigenerata linfa vitale di cui si era obliterato anche l’etimo: entusiasmo.

Sì, Entusiasmo di una piazza che non ha mai avuto dubbi sulle intenzioni del gruppo Pelligra, e se confermati tutti, ma anche in parte, i buoni propositi, gli stessi diverranno architravi posti su solide fondamenta non più solo per sognare, ma per realizzare progetti veri, di quelli che sai che esistono da qualche altra parte d’Italia, magari in quel Nord visto, e vissuto, sempre con malcelata invidia. Maturi frutti di altre realtà spesso molto più piccole rispetto alla nostra, a volte nemmeno province: a ripensarci, fa rabbia davvero.

Adesso, se tutto procederà come da programma, questione di imprescindibile tempo tecnico, anche noi avremo una rappresentativa di calcio nei campionati che contano, anche noi potremmo apporre il nostro fiore all’occhiello ma… ad oggi su un vestito palesemente consunto. Pertanto, passaggio d’obbligo, senza untuosi piagnistei, è giunto il momento di chiedersi: Catania, la città con le sue ondivaghe sfaccettature, tra sacche di povertà culturale prima e materiale dopo, stentatamente compensate da ciò che rimane della meglio gioventù, sempre pronta con la valigia in mano, tra lucenti, laviche, strade ricoperte, a fasi alterne, da cumuli di immondizia che fanno prima capolino per impennarsi in vere e proprie colline, da una economia martoriata, è davvero pronta al grande salto nel mondo del calcio che conta?

Si promettono fiumi di progetti, fuori dalle vetuste logiche a cui eravamo abituati, sogni che se realizzati a paragone sminuiranno, rintuzzandola, la più fervida fantasia dei tifosi, ma per ottenere tutto questo, il costo per la sua realizzazione sarà altissimo e traducibile in un solo termine: cambiamento. Obbligo sarà frantumare la rasserenante, quanto perniciosa, logica della reiterazione racchiusa in quell’odioso: “Sempri a Catania semu”, evitare che il tutto si estingua in un restyling fondato su estemporanea passionalità durevole quanto la fiamma di una candela a miccia corta.

Bisogna pretendere che a ogni risalita della nostra squadra del cuore, deve corrispondere, pedissequamente, la risalita della Città.

Pertanto, se a ogni serie conquistata, non coinciderà con una rintuzzata sacca d’ignoranza, una protuberanza maleodorante in meno, una decisa elisione di spacconerie, come spingere a terra un ragazzo in monopattino, saremo fermi ancora al punto zero, illudendoci di aver meriato la nuova serie, magari per perderla nuovamente nel giro di qualche anno. I soliti piagnistei senza nemmeno aver cominciato? No, no, no e ancora no, qui proviamo a descrivere il suo perfetto contrario, sapendo che ci sono ataviche difficoltà da colmare provando a comprendere bene con cosa, coscienti che bisogna ridurre drasticamente quel gap sub culturale che s’interpone tra il desiderio di ciò che potrà scaturire da questa ondata australiana di novità, alla sua concreta realizzazione sul nostro, asfittico, territorio. E anche noi, che abbiamo la responsabilità di descrive gli eventi, di raccontare fatti e non soggettive emozioni o personali opinioni, dovremmo riporre, in un buio angolo di un ripostiglio, usurati “red carpet” pronti ad essere srotolati ai piedi del Patron di turno, giusto per qualche clicbyte in più.

Cresciamo se vogliamo che ci osserva cresca anche lui, non facciamoci risucchiare da quel velenoso provincialismo inutile come un maglione in questi afosi giorni d’estate. Tutto questo, e molto altro, dovrà contenere quella che sarà la conquista finale della prima lettera dell’alfabeto, quella in versione maiuscola, così come saremo responsabilmente costretti a diventare maiuscoli tutti noi.

Stavolta davvero: tertium non datur.