CATANIA – Quando all’inizio dell’estate del 1869 lo scrittore siciliano Giovanni Verga comincia a stendere i primi versi del suo romanzo epistolare “Storia di una capinera” sono già trascorsi diversi anni dalla conclusione della spaventosa epidemia di colera che aveva falcidiato il Regno delle Due Sicilie, in particolare Catania.
L’esperienza della fuga dalla città dell’elefante – appestata dal feroce morbo – verso la cara e intima Vizzini colpisce profondamente il drammaturgo etneo, al tempo appena adolescente. Lo stesso Verga decide quindi di trasferire per iscritto, in termini quasi autobiografici, le angosce e le emozioni provate durante il soggiorno nella campagna etnea.
Dal colera al Coronavirus
Oggi, a distanza di quasi due secoli da quei tragici momenti, è possibile rintracciare negli scritti verghiani le stesse paure e i medesimi tormenti da noi provati in questi mesi durante l’emergenza Coronavirus. Il parallelismo diventa ancora più forte se ci si addentra nella lettura di “Quelli del colèra“, novella contenuta nella raccolta “Vagabondaggio” ed elaborata in età matura dal genio catanese.
Qui Verga descrive con rude sincerità l’avversione maturata dai cittadini di San Martino (“s’erano anche armati, uomini e donne“) nei confronti dei viandanti provenienti da altre città o dei “poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane” identificati come untori.
Emblematico anche l’episodio di Miraglia, “un paesetto mangiato dal colèra e dalla fame“, dove i residenti si accaniscono con ferocia su una famiglia di zingari affamati. A farne le spese, in questo caso, è addirittura una giovane madre che vuole soltanto “difendere la sua creatura” dalle scuri brandite dal popolo accecato dall’ira.
Verga dalla parte degli ultimi
L’estro verghiano costringe il lettore a soffrire insieme ai personaggi. Verga, abbracciando gli ultimi, si rivela anticipatore delle grandi tematiche del mondo contemporaneo. La penna del drammaturgo siciliano ci parla del migrante respinto alle porte di una nuova speranza. Ci pone soli, davanti allo specchio, vestiti soltanto dai pregiudizi maturati nei confronti dell’altro.
Nella caccia a “certe facce nuove” accusate di essere portatrici del “morbo asiatico” (com’è stato volgarmente ribattezzato il colera nel corso dei secoli) è possibile anche intravedere incredibilmente quei comportamenti sinofobici manifestati senza giustificazione alcuna in occasione delle primissime settimane di diffusione della pandemia nel nostro Paese.
Giovanni Verga nel XXI secolo
Di cosa avrebbe parlato Giovanni Verga se fosse vissuto ai giorni nostri? Quali atteggiamenti avrebbe assunto? Probabilmente, il suo approccio non sarebbe stato molto differente da quello di un cronista intento a raccontare la quotidianità nel modo più scrupoloso possibile.
Come per gli scritti menzionati in precedenza, sarebbe stato altrettanto capace di rendere pubblici i tormenti della nostra società. Come ne “Il ciclo dei Vinti” avrebbe raccontato di classi sociali, precariato e difficoltà economiche. Come in “Rosso Malpelo” avrebbe scritto di morti bianche e di sfruttamento minorile. L’unica differenza? Un computer di ultima generazione tra le mani al posto di penna e calamaio.
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