CATANIA – Ritorna al centro del dibattito la questione della parità di genere nella lingua italiana. A riportare l’argomento sotto i riflettori è stata l’Accademia della Crusca che, rispondendo a una domanda giunta dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, ha fatto chiarezza su quello che rappresenta un uso corretto della lingua. Nello specifico l’intervento della Crusca, attraverso una vera e propria sentenza, è relativo al rispetto della parità tra uomo e donna nella stesura degli atti giudiziari.
Quello affrontato dagli esperti della Crusca è certamente un tema profondamente dibattuto negli ultimi anni, considerando che si alternano quotidianamente pareri discordanti sulle disuguaglianze tra i due sessi, che sembrerebbero alimentate dalla prevalenza del genere maschile nella lingua italiana. È indubbiamente comune il tentativo, ormai divenuto abitudine, di usare il maschile come se fosse un neutro, dimenticando quello che per alcuni sembra essere un passaggio fondamentale: la lingua rappresenta lo specchio della società e, in quanto tale, ricopre un ruolo di spicco nel contesto culturale del Paese.
Stop ad asterisco e schwa
Gli esperti dell’Accademia della Crusca hanno innanzitutto chiarito la necessità di rimuovere l’uso di segni grafici che non hanno una corrispondenza nel parlato: si fa riferimento allo schwa (che consiste nel simbolo “Ə”) e agli asterischi (ragazz*, tutt*…), che si sono diffusi soprattutto tra i più giovani con l’intenzione di trasmettere un messaggio di inclusione che andrebbe al di là di qualsiasi genere. La Crusca si è anche mostrata contraria alle duplicazioni retoriche, per esempio “i cittadini e le cittadine”.
Sì ai nomi declinati al femminile
È stato anche stabilito che negli atti giudiziari potranno essere inseriti termini che fino a questo momento erano presenti solo al maschile, come nel caso di “magistrato”, “avvocato”, “ministro” che adesso saranno accettati anche al femminile (magistrata, avvocata, ministra e così via).
No all’articolo davanti al cognome
Un’altra novità presentata dagli esperti della Crusca consiste nell’eliminazione dell’articolo davanti al cognome, per esempio “la Meloni” o “la Schlein”. Pur non considerando realmente discriminatoria tale abitudine, l’Accademia della Crusca ha ritenuto opportuno tenere conto dell’opinione pubblica che sembra opporsi a quest’uso improprio degli articoli determinativi.
La parola alla prof.ssa Stefania Mazzone
Per chiarire alcuni dei principali aspetti relativi alla parità di genere nell’ambito linguistico, è intervenuta ai microfoni di NewSicilia la dottoressa Stefania Mazzone, professoressa di Storia delle dottrine politiche, delegata all’inclusione, pari opportunità e politiche di genere del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania.
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Inserire a tutti gli effetti nella lingua italiana termini che fino a questo momento erano sempre stati utilizzati esclusivamente al maschile e che adesso sono stati accettati anche al femminile (avvocata, ministra…) rappresenta una vera conquista per le donne?
“Il linguaggio rappresenta non solo un modello di riferimento per la comunità, ma anche e soprattutto una pratica sociale di evoluzione della formazione culturale attraverso la sensibilizzazione di valori come quelli della valorizzazione delle differenze, indicando performativamente processi in divenire“.
“L’italiano subordina il femminile al maschile a favore del cosiddetto maschile generico, cioè un maschile presunto neutro e universale, che comprende l’uomo e la donna. Esso rappresenta in realtà uno degli usi linguistici dagli effetti più discriminanti: il genere grammaticale neutro in italiano non esiste e il genere grammaticale maschile è, appunto, maschile, quindi in riferimento a esseri umani evoca quelli di sesso maschile“.
“Negli atti normativi e nei documenti amministrativi si usa costantemente una lingua androcentrica, cioè incentrata sull’uomo: il maschile è il genere grammaticale dominante anche in testi che riguardano una persona di sesso femminile. Indubbiamente, la pratica partecipativa dell’universo femminile nelle istituzioni e nella società non può che cambiare la lingua e i suoi significati. In questo senso, evitare la deformazione della parola per indicarne il suo femminile, sostituendo semplicemente una desinenza, mantiene il livello di parità e non ‘generazione’ che consente la costruzione di una percezione realmente soggettivizzante delle differenze di genere“.
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Se è vero che è lo specchio della società, la lingua deve andare incontro alle esigenze della popolazione oppure deve restare fedele a regole ben radicate da secoli e da cui non si può prescindere?
“Sappiamo che la lingua si modifica col tempo e con le influenze che derivano dalla società, che si evolve nell’uso quotidiano e non può essere cambiata per disposizione normativa. Tuttavia, le ‘buone pratiche’, sia nel discorso pubblico che in quello privato, permettono di realizzare un uso della lingua italiana consapevole e rispettoso di tutte le differenze di genere e rappresentativo di tutte le diverse componenti che concorrono a formare una società plurale e avanzata: dalla pratica alla forma“.
“La questione della rappresentazione della donna attraverso un linguaggio che ne permettesse il riconoscimento e la valorizzazione, è stata trattata in Italia già a partire dal lavoro di Alma Sabatini “Il sessismo nella lingua italiana” (1987), pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in un periodo in cui la questione della parità tra donna e uomo era alla ribalta grazie ai movimenti sociali e politici delle donne. Le proposte di Alma Sabatini furono riprese in molti programmi, manuali e documenti ufficiali, che raccomandavano alle amministrazioni pubbliche un uso della lingua non discriminatorio e contenevano indicazioni per ottenere la chiarezza degli atti amministrativi“.
“Ciò dimostra come sia necessario l’aggiornamento della lingua contestualmente con l’evoluzione di una società che si voglia sempre più inclusiva ma, allo stesso tempo, che nessun cambiamento avrà effetto sulla società se non praticato dal basso nelle concrete relazioni sociali che pongano la questione del potere e dei poteri nella loro dimensione microfisica“.
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La decisione della Crusca di mettere da parte l’asterisco e lo schwa, per indicare il genere neutro, può essere ritenuta – come alcuni affermano – una negazione del proprio bisogno di inclusione?
“Personalmente, ritengo che la neutralizzazione dei generi sia un’arma a doppio taglio e suggerisca, in altra forma, un nuovo modello d’indifferenziazione che male si addice alla richiesta di protagonismo e inclusione di parti sempre più plurali e differenti delle soggettività sociali. L’omologazione dell’asterisco o della schwa, se da una parte attiene alla necessità di superare l’universale maschile, rimane sul piano di una universalizzazione pericolosa e formale, mistificando l’asimmetria delle condizioni con un indistinto percorso universale“.