Giovanni Tizian, giornalista sotto scorta: “L’antimafia torni per strada”

CATANIA – C’è chi ha un destino scritto nel dna. Quello di certi giornalisti è quello di raccontare storie che nessuno vorrebbe raccontare, tenendo sempre la barra dritta. Giovanni Tizian, cronista 32enne di origini calabresi, è uno di questi. È divenuto noto al grande pubblico suo malgrado: è entrato nel poco ambito club dei giornalisti sotto protezione. Come Roberto Saviano per intenderci.

Dal 2011 il giovane cronista, mentre lavorava a Catania, è stato messo sotto scorta: le sue inchieste sulla criminalità organizzata e le sue ramificazioni al nord Italia, specie in Emilia Romagna. hanno dato fastidio alle organizzazioni mafiose.

Proprio in Emilia Tizian si è trasferito a seguito della morte del padre Giuseppe, ucciso a colpi di lupara nell’ottobre del 1989, secondo una triste liturgia mafiosa. Da quell’episodio è nata la passione di Giovanni Tizian per l’approfondimento e l’inchiesta, tanto che un capoclan – a causa del suo certosino lavoro di approfondimento giornalistico – in un’intercettazione con un altro mafioso ha promesso di “sparargli in bocca”.

Adesso il giornalista è giunto alla sua terza fatica letteraria. Dopo aver scritto “Gotica” – nel quale raccontava le infiltrazioni mafiose al nord – e “La nostra guerra non è mai finita”, una narrazione del suo vissuto personale e del suo viaggio iniziato da una terra notoriamente mafiosa come la Calabria e terminato in un terra emiliana.

In questi giorni è uscito per Mondadori il suo primo romanzo, “Il clan degli invisibili”. Una storia con protagonisti i giovani padrini rampanti del sud e due cronisti che cercano la verità contrastando l’ascesa criminale.

– Giovanni hai abbandonato la saggistica per dedicarti al romanzo. Come mai questa scelta?

“Scrivere un romanzo era un mio grande sogno e spero che questo non sia l’unico. Il saggio ti porta a raccontare i fatti in maniera molto tecnica e lineare, mentre con un romanzo puoi spaziare con una narrazione più semplice e godibile”.

– Non si può non dire che il romanzo abbia in sé tanto del tuo vissuto…

“Sì, infatti si basa su fatti realmente accaduti e indagini che ho avuto modo di seguire. Ci sono esperienze che ho vissuto in prima persona e che ovviamente ho modificato per adattarle alla forma del romanzo. Ci sono i boss dei paesi e i loro soprannomi e i due protagonisti, che sono due giornalisti al posto dei soliti commissari, sono la sintesi del mio mestiere. Uno mi rispecchia molto, mentre nell’altro ho racchiuso tutti i tratti dei miei maestri di giornalismo”.

– Dal 2011 vivi sotto scorta. Com’è vivere blindato e quanto ti pesa?

“Sono sotto protezione e purtroppo non è vero che ti abitui. Non lo credevo prima e confermo la mia tesi iniziale, nonostante tanti mi dicessero il contrario. Questo a maggior ragione se sei giovane e hai tutta la vita davanti. Intanto è iniziato il processo in merito che è in corso a Bologna. Io dovrò testimoniare come parte civile e mi hanno sostenuto l’ordine dei giornalisti, la presidenza del consiglio, il ministero della Giustizia, Libera, Sos impresa e tanti enti locali”.

– Hai pagato un prezzo molto alto solo perché hai svolto il tuo lavoro. Non hai l’impressione che i giornalisti, specie freelance e di provincia, spesso siano bistrattati e solo dopo un caso eclatante siano considerati positivamente dall’opinione pubblica salendo alle luci della ribalta?

“Purtroppo è come dici tu. Basta vedere come vengono trattati i freelance in Italia e in altri paesi. Da noi sono un peso e ad esempio in Germania sono una risorsa. Qui il freelance è precario e viene visto come uno che vuole rubare il posto a chi un posto ce l’ha. Ci rendiamo conto della bravura e della qualità di un cronista di fronte a episodi eclatanti. Abbiamo tanti esempi di persone bistrattate da vive e beatificate da morte, come Giovanni Falcone. È l’ipocrisia italiana e vale anche per il nostro mestiere”.

– Recentemente Crocetta ha affermato che in ogni consiglio comunale e anche all’Ars ci sono gli eletti della mafia. Data la tua esperienza quanto è vera questa affermazione?

“È un fenomeno partito da tempo in Sicilia e in altri territori, con il picco negli anni ’80 con le famiglie mafiose che conquistavano la Lombardia e che continua ancora oggi. Non è un fenomeno marginale e i consigli comunali sono stati sciolti anche al nord e vengono arrestati consiglieri comunali e regionali anche in Lombardia. Sono dinamiche che fanno parte di un territorio. Spesso i pentiti parlano del livello invisibile della ‘ndrangheta che ti permette di entrare in contatto con la borghesia delle regioni del Nord. È un fenomeno nazionale e internazionale”.

– Ritorna spesso la citazione dei professionisti dell’antimafia di Sciascia. Pensi che sia ancora attuale?

“Spesso sono stato accusato di essere un professionista dell’antimafia, anche dagli avvocati dai mafiosi. È stato strumentalizzato e frainteso lo scritto di Sciascia, tanto che lo stesso Sciascia e Borsellino chiarirono il senso dell’articolo. Ma quel termine viene usato come un’accusa generica per denigrare il nostro lavoro. È un’arma che usano gli amici della mafia per accusare chi fa antimafia. Per essere corretti c’è da dire che all’interno dell’antimafia non tutto è rose e fiori”.

– In che senso?

“Ci sono percorsi intrapresi che sono risultati una messa in scena, ci sono stati arrestati anche in questo mondo. Va ripensata l’antimafia, occorre tornare per strada. Serve un movimento che non deve basarsi sui finanziamenti e sui soldi per organizzare qualcosa. Sono per una critica seria e costruttiva, ovviamente accusare di essere professionisti dell’antimafia non lo è”.