Convegno sulle relazioni di genere nelle nuove generazioni

CATANIA – Sabato 30 Maggio l’aula conferenze della biblioteca comunale Vincenzo Bellini di via Antonino di Sangiuliano 307, si è riempita di giovani studentesse, giovani studenti, aspiranti docenti e si è registrata anche la piacevole presenza di qualche mamma che ha accompagnato la propria figlia. Tutti desiderosi di ascoltare la professoressa Graziella Priulla, personaggio molto noto a Catania: sociologa, saggista e docente all’Università di Catania nel dipartimento di Scienze politiche e sociali,  che ha dedicato i suoi studi, continuando ancora a farlo con evidente e coinvolgente passione, agli stereotipi di genere nelle nuove generazioni.

In un contesto sociale che cambia si sente l’esigenza di mutare anche le parole delle quali bisogna ben comprendere il significato e l’etimologia affinché si usi sempre un linguaggio rispettoso e adeguato. In ogni ambito della vita sociale, pubblica o privata, ci si esprime comunemente con parole razziste, omofobe e sessiste che si presentano come specchio della volgarità diffusa. Le parole definiscono il contesto in cui viviamo e rivestono un ruolo decisivo nella costruzione delle soggettività individuali e dell’identità collettiva, contribuendo a creare le fondamenta sulle quali erigere situazioni di disparità e prevaricazione nella vita quotidiana. Il rimedio non è certo il galateo, ma una pratica costante del dissenso e un recupero dell’uso consapevole della lingua come portatrice di significati.

Il “femminile” nell’immaginario collettivo è ancora profondamente legato all’idea di cura, di infanzia, di  fragilità, di lavori domestici…..tutti stereotipi squalificanti. Perché ci risulta difficile o, ancora peggio, “ci suona male” utilizzare termini come: consigliera, assessora, sindaca, ministra, direttora, chirurga o architetta?

Perché amiamo i termini “maestra” o “infermiera”? Perché la maestra e l’infermiera si prendono cura degli altri, quindi confermano gli stereotipi di genere ai quali siamo legati. Perché non ci piace il termine “ministra”? Perché la ministra decide le sorti di uno Stato. I mestieri di cura sono delle donne, i mestieri manageriali sono degli uomini! Il maschilismo opera davvero ovunque! Qualcuno tra il pubblico ha detto: “Ma è sempre stato così, non siamo abituati a certi termini!” Lo stigma qui è immediato. Se si dà una bambola a una bambina va tutto bene, sarà una futura mamma. Una bambola a un bambino non si può dare, altrimenti diventerà gay, non si pensa nemmeno che potrebbe diventare un padre. Scatta solo il meccanismo: diventerà come una donna!

“Quello delle scelte formative – dice la Priulla – è un dato molto significativo: il 90% del personale docente italiano è donna,  l’81% sceglie materie linguistiche e psicologiche, appena il 18% ingegneria e solo il 22% fisica”.

La professoressa porta anche l’esempio dei lavori domestici: mentre le donne italiane dedicano ad essi in media 4 ore al giorno (primato in Europa, siamo le più pulite!)  le svedesi solo 40 minuti, questo perché sia i servizi dedicati alla persona in Svezia sono molto efficienti, sia perché, nel Paese scandinavo famiglia e anche scuola, nell’insegnare l’economia domestica ai bambini, alle bambine, alle ragazze e ai ragazzi, non fanno alcuna distinzione  di sesso. In Italia, soprattutto nel Meridione, è un problema delle madri che permettono ai figli maschi di non fare nulla in casa mentre insegnano alle femmine a pulire, stirare e cucinare perché è un loro compito e lo sarà per sempre. Praticamente una profezia che si autoadempie.

Neanche la filosofia occidentale ha aiutato molto il mondo femminile. La ragione è sempre appartenuta agli uomini che hanno avuto in mano la politica, il governo, la cultura. Erano i maschi dotati di genialità e intuizione e quindi gli unici a meritare di stare nella vita pubblica. Tutte le altre qualità erano soltanto meritevoli di appartenenza alla vita privata e quindi destinate alle donne. I veri uomini, infatti, non potevano “cedere alle emozioni”, si è sempre parlato appunto di “cedimento”, quest’aspetto è  appartenuto esclusivamente alla donna che doveva avere ben altre ambizioni invece di far filosofia, a lei venivano affidati sentimenti, emozioni, passioni forti. La sfera emozionale, quella “femminile”, è stata in ogni tempo considerata inferiore. Si è sempre detto infatti “cedere alle emozioni” e non “cedere alla ragione”.

Un’altra distinzione potente è quella tra la natura e la cultura, il corpo e lo spirito. La donna, in virtù della capacità riproduttiva, del parto, del sangue, del dolore, della gravidanza e di tutto ciò che è legato alla materia, è stata sempre relegata nell’ambito della natura che veniva contrapposta a un’altra dicotomia stereotipata.

“I pregiudizi producono stigma – ha ribadito la professoressa – e lo stigma produce razzismo. Tutto questo insieme di radicamento di idee banalizzate, rozze, sbagliate e persistenti, in adolescenza, genera un modo forte di confermare la propria identità. Tutto il bullismo e tutta la violenza del branco si basano sul “noi contro loro e loro contro noi”, quindi su uno stereotipo squalificante. Lo stereotipo che squalifica la vittima di bullismo, nel caso di una donna è di due tipi: o è brutta (la bellezza è diventata obbligatoria) o, quella frase tremenda – continua la professoressa – “la dà facilmente” (espressione terribile che contiene di per se uno stereotipo dove il corpo di una donna viene assunto ad oggetto e una sua parte viene vissuta come una “cosa” che si dà e si prende. Frase distruttiva – conclude la studiosa –  ma diffusissima, potenziata anche dalla pubblicità televisiva dove spesso si reclamizzano oggetti “dati gratis”.

Una donna vittima di bullismo è “brutta” o “zoccola“, attributi che creano nelle adolescenti sconforto, inadeguatezza e disperazione; nel caso dei maschi invece lo stigma è unicamente legato alla loro sessualità, tutto il bullismo scolastico è omofobico: un ragazzo che ha una voce più bassa rispetto alla norma o dei gusti nell’abbigliamento diversi dalla massa, un ragazzo più gentile, più tenero, più timido rispetto ai coetanei, un ragazzo che assume dei comportamenti che possono far pensare all’omosessualità è già identificato come tale. Essere omosessuale vuol dire essere debole perché si è come una donna, essere omosessuale vuol dire essere vulnerabile come una donna e quindi si attivano una serie di stigmatizzazioni che si esplicano come violenza psicologica, verbale e fisica. Le statistiche dicono che il 25% delle aule scolastiche sia funestato da bullismo sistematico.

Oggi la costituzione dell’identità è più complessa e più ricca rispetto al passato, eppure in troppi punti è influenzata dalle antiche regole di costruzione dei generi. Viviamo in una società tecnologicamente avanzata, ma molti sono ancora analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale. È arrivato il momento di affrontare con serenità e con pazienza un sistema di valori negativi che genera infelicità. Il cambiamento è innanzitutto rottura di uno schema mentale che porta a dire “non si può fare” o “non si è mai fatto”, per continuare a non farlo. È questo il terreno in cui si gioca la qualità della vita degli uomini e delle donne: l’affermarsi di una nuova civiltà delle relazioni; una società con pari opportunità e pari diritti, norme sentimentali sostenibili, nuovi modelli genitoriali. Nuove parole. (Graziella Priulla, Parole tossichecronache di ordinario sessismo, Settenove Edizioni).

Tutti i contenuti del convegno sono reperibili nei testi della prof. Graziella Priulla:

–  Parole Tossiche cronache di ordinario sessismo, Settenove Edizioni.

C’é differenza. Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole, Franco Angeli.

I caratteri elementari della comunicazione, Laterza.

L’Italia dell’ignoranza, Franco Angeli.