“Accabadora” di Michela Murgia

“Accabadora” di Michela Murgia

CATANIA – La quarta. L’ultima. Mai chiamata per nome, mai sfiorata con una delicata carezza, solo un nome, quello recitato in chiesa il giorno del battesimo. Maria. Piccola e superflua agli occhi della madre, la creatura venuta al mondo vive in simbiosi con sorella povertà come compagna di culla.

La Sardegna è terra fortemente ancorata alla cultura delle tradizioni tramandate da padre in figlio per un numero imprecisato di generazioni. Quasi impossibile trovare l’archivio segreto (o immaginario) dove sono state nascoste le radici etniche aggrappate a un paesaggio innamorato del mare.

Accabadora“, il romanzo della scrittrice sarda Michela Murgia è stato pubblicato nel 2009 dalla casa editrice Einaudi. Tradotto in numerose lingue straniere, nel 2010 il romanzo detentore di numerose edizioni, vinse il Premio Campiello.

Nella tradizione sarda, con il termine “accabadora” si intende una figura femminile notte e giorno vestita di nero, dall’aspetto alquanto misterioso, interrogata dal credo popolare per porre fine alle sofferenze dei moribondi. Il suo nome deriva dalla parola spagnola “Acabar”, che significa “finire“. L’accabadora veniva a compiere l’ultimo strazio, chiamata al capezzale del povero sventurato in ritardo con la sentenza che pone la vita in congedo perpetuo.

A Soreni (nome fittizio di paese), “la quarta” si chiama Maria Listru. Siamo negli anni Cinquanta, l’usanza sarda a due passi dalla leggenda vive uno dei suoi ultimi riti in “colei che finisce“, Tzia Bonaria Urrai, madre adottiva in tarda età della piccola Maria, sei anni appena, “fill’e anima”, ovvero “figlia dell’anima”, come “i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell’altra”.

Due madri, da un lato il frutto di un grembo incapace di proteggere quel piccolo, maltrattato fiore, dall’altro Bonaria, la donna tanto temuta quanto attesa nella casa in odore di morte. È notte, uno scialle nero sulle spalle le permette di amalgamarsi al cielo insonne in previsione di un lutto.

Maria non è più una bambina, figlia di nessun amore vive con due madri innamorate di sé, nella notte segue l’ombra furtiva che precede l’annuncio di un nuovo corpo da seppellire. “Io quel giorno ho capito il nero del lutto. Io credevo che il nero servisse a mostrare il dolore. E voi mi diceste che il nero serviva a coprire il dolore e non a mostrarlo, altrimenti il dolore è nudo“.

Il dubbio diventa indizio, qualche ora dopo è già orrore certo, il rituale macabro sta per essere compiuto e forse, da qualche parte c’è un respiro interrotto da credenze popolari perdute nei secoli. L’accabadora è in possesso del brevetto oggi restaurato con il nome di eutanasia.

La chiamano “morte assistita“, il sostenitore della pratica si spinge oltre utilizzando l’espressione “fine dignitosa”, un diritto non contemplato dalla Costituzione italiana, ma su disposizione della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, è possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito “deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale“.

Nella costruzione del personaggio di Maria, Michela Murgia attinge a un ventaglio di sentimenti disseminati intorno alla sofferenza senza alcuna speranza di guarigione. Maria è cresciuta nella paura di vivere accanto a una donna dall’aura raccapricciante che l’accompagna fin sotto le suole delle scarpe.

Allontanarsi da quel circo specializzato nel doppio salto mortale rappresenta l’unico modo per salvare la breve luce pura del suo passato. Così Maria incontra il mare per trasferirsi in continente, troppo giovane per la sua mente digiuna di riti ancestrali nati e consolidati in un tempo antichissimo.

Michela Murgia, nata a Cabras in provincia di Oristano, intende forzare l’accento sulla stregoneria approvata da tutti, come se il resto dell’Italia rimanesse a guardare le presenze ambigue nella notte separata dalla penisola. Appare inverosimile che gli uomini possano condividere lo stesso secolo e nel contempo vivere staccati da un contesto storico-sociale considerato “alternativo”.

Tutt’altro che marginale risulta la riflessione imposta alla lettura di un romanzo formativo come “Accabadora”. L’incipit dell’opera prima di Michela Murgia si presenta con l’amore madre/figlia fuori dal grembo privato di battere nella promessa di un doppio eterno.

Nella tasca di Maria, il biglietto di ritorno in casa della madre è occasione per riprendere il dialogo sospeso a causa di un’antichissima pratica da lei mal tollerata. Per l’accabadora è tempo di prepararsi all’addio identico a quello dei tanti disgraziati abbandonati nelle sue mani. Al capezzale la raggiunge Maria, la figlia scelta da una donna istruita ad aprire la porta a sorella morte.

Chiamarla strega forse è troppo, di certo Bonaria Urrai è stata schiava di una cultura in tutt’uno con l’isola volutamente di parte. “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo“. Le parole dell’ultima madre sono evocate dalla dignità espressa dall’anima ligia al suo dovere.

Accabadora di Michela Murgia

sara