CATANIA – Al giorno d’oggi è praticamente impossibile negare che i social network influenzano letteralmente ogni aspetto della nostra vita, compreso il modo in cui veniamo a conoscenza dei fatti e viviamo gli eventi, soprattutto quelli dolorosi.
La nascita di quella che più volte è stata definita “era tecnologica” ha cambiato il nostro modo di essere, stimolando la voglia, innata in ognuno di noi, di conoscere la realtà e di comunicarla e commentarla per “assimilare” e comprendere quanto avviene nel mondo circostante.
La velocità con cui oggi è possibile immortalare e condividere momenti memorabili, nel bene e nel male, ha reso sempre più necessario vivere “in diretta” gli eventi, in particolar modo quelli tragici: tutto questo genera una sorta di “smania”, di ansia di avere video, foto, nomi, dettagli e approfondimenti nel minor tempo possibile, meglio se in tempo reale.
Lo dimostrano alcuni eventi di cronaca recenti: le operazioni di soccorso di Julen, il bambino spagnolo di soli 2 anni caduto in un pozzo a Totalàn (Malaga) e purtroppo estratto morto dopo diversi giorni di interventi, hanno tenuto migliaia di individui con gli occhi sugli schermi in attesa di conoscere le sorti del piccolo. Dirette in streaming da parte di decine di emittenti televisive e web e aggiornamenti costanti delle persone sul luogo hanno offerto a tutti la possibilità di apprendere nuovi dettagli sconvolgenti minuto per minuto e condividere angoscia, preoccupazioni e, dopo l’orribile ritrovamento del cadavere, anche dolore e frustrazione su Internet.
La tragedia di Totalàn (molto simile per il tipo di attenzione mediatica a quella di Vermicino del giugno 1981, quando il piccolo Alfredino Rampi morì dopo numerose ore di agonia in un pozzo) è solo l’ultimo “caso choc” che ha stimolato l’interesse e l’empatia della popolazione mondiale: ogni evento triste, da quello fisicamente più “vicino” a quello più eclatante e di rilievo internazionale, genera inquietudine e fremente curiosità di conoscere la storia e di viverla assieme ai suoi protagonisti.
Questo atteggiamento è in parte naturale nell’essere umano ed è stato solo amplificato dalle potenzialità della tecnologia moderna. Lo spiega bene Livia Longo, psicologa clinica e giuridica: “Da sempre l’uomo è stato curioso. Un tempo la curiosità era narrata e la via era quella uditiva: le persone si riunivano nei ‘cortili’, il luogo in cui si parla e si racconta di tutto quello che avviene nel quartiere, nel paese e nelle città. Con i social, il canale non è più quello uditivo, ma quello visivo. La particolarità del canale visivo è l’immediatezza: il nostro sistema nervoso, non appena vede una foto, produce subito delle forti emozioni. Sono queste che ci spingono a continuare a voler vedere altro, a voler sapere cosa sta accadendo. Gli eventi tragici sono fonte di curiosità per eccellenza, perché la gioia e il dolore, tutto ciò che è estremamente positivo o negativo, sono da sempre fonte di movimento, di spinta verso il mondo e tutto il sistema che ci circonda. Ciò avviene anche con l’arte o la letteratura: le più belle poesie, ad esempio, nascono o dal forte dolore e dalla tragedia o dall’amore. Le grandi emozioni suscitano la curiosità”.
I social, quindi, hanno reso ancora maggiore la voglia di vivere le emozioni, soprattutto quelle negative, in maniera intensa. È come se ogni tragedia potesse trasformarsi potenzialmente in una pellicola, coinvolgente ma pur sempre “lontana” perché conosciuta solo tramite contenuti visivi.
In merito a ciò, la dottoressa Longo dichiara: “Un tempo si veniva a conoscenza delle tragedie, ma si trattava delle disgrazie ‘dell’orto vicino’, mentre oggi sappiamo degli eventi dolorosi di tutto il mondo e tutti abbiamo la possibilità di avere foto e video immediatamente. La curiosità, quindi, non fa altro che aumentare: è come se, con la tecnologia, avessimo ‘gettato della benzina’ su questo fuoco che abbiamo dentro. Tutto diventa un po’ come uno spettacolo, che nutre l’egoismo della persona. Non è uno spettacolo che porta a pensare ‘Forse la persona in difficoltà ha bisogno del mio aiuto’ e a prestare soccorso se necessario, come magari avveniva in precedenza, quando la notizia riguardava in qualche modo sempre una persona vicina e la famiglia interessata dalla tragedia si poteva raggiungere facilmente, perché riceviamo notizie drammatiche anche dall’altra parte del mondo. Con i mass media e i social e con tutte le notizie che ci raggiungono attraverso Internet e i dispositivi tecnologici, ci sentiamo ‘vicini’ alla tragedia, ma fisicamente non lo siamo. Ne consegue che oggi siamo vicini per racimolare quotidianamente le informazioni che nutrono la nostra curiosità, ma lontani per portare aiuto”.
Anche se una reazione simile può essere considerata “normale” quando un evento catastrofico avvenga in un luogo fisicamente non accessibile nell’immediato, purtroppo essa spesso diventa prassi regolare anche quando un episodio sconvolgente si materializza proprio davanti ai nostri occhi e questo può ridurre il nostro essere “umani” e sensibili di fronte al dolore altrui: “La cosa drammatica è che stiamo applicando la stessa modalità quando succedono delle cose vicino a noi: ogni volta che capita una tragedia vicino a noi, invece che mobilitarci nei limiti del possibile, continuiamo a chiedere notizie su Facebook. Questo succede anche in occasione delle calamità naturali, come i terremoti: in parte è accaduto anche dopo il recente sisma a Fleri, che ha colpito molti territori del Catanese. Alcune persone hanno preferito esporsi sui social e conoscere i dettagli da lì piuttosto che mettersi in marcia per prestare soccorso”, afferma la psicologa Livia Longo facendo anche riferimento a una vicenda che ha stravolto i cittadini del capoluogo etneo.
Tale rivelazione, pur con le sue eccezioni, non si può considerare falsa, specialmente in una realtà in cui sapere tutto subito è diventato una sorta di “bene primario”. Lo conferma il commento finale della dottoressa Longo: “L’avvento di Internet e dei social ha modificato la reazione della gente alla tragedia, trasformandola in un gruppo di spettatori che agiscono come se vedessero un film al cinema, anche quando non hanno davanti una finzione ma la dura realtà“.
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