CATANIA – Dobbiamo a Max Brod, amico fraterno di Kafka fin dai tempi dell’università, non solo la mancata distruzione dei suoi scritti, come richiesto dalle sue ultime volontà, ma la pubblicazione anche dei capolavori incompiuti. A lui va la nostra eterna riconoscenza, perché pensare alla letteratura, alla visione del mondo in generale, senza Franz Kafka, sarebbe renderla orfana.
Non a caso kafkiano è un aggettivo ormai entrato nel nostro immaginario collettivo per indicare un universo cupo, grottesco, ossessivo, asfittico, fagocitato dal Potere, reso a sua volta da una mostruosa macchina burocratica dalle ignominiose turpitudini.
I suoi protagonisti sono intelligenti vittime del sistema, finendone necessariamente schiacciati, senza una possibile comprensione dei fatti. E proprio Il processo ne è l’emblema forse più significativo, in cui il signor K. (personaggio necessariamente autobiografico) resta irretito nelle maglie di un’inchiesta giudiziaria per l’appunto senza conoscerne la colpa né poter procedere di conseguenza ad una difesa.
L’unica certezza è che dovrà essere giustiziato: questo stabilisce una legge tortuosa e labirintica. “Correlativo oggettivo”, rappresentazione concreta cioè di questo concetto astratto, ne è il Palazzo di Giustizia, descritto come “casa”, un edificio qualunque, con un’ala in mezzo ad abitazioni, sequela di stanze, dedalo in cui perdersi, popolato da personaggi compulsivi, terrorizzati dalla loro ombra o espressioni dello Stato oppressivo.
A nulla vale la ragione, l’opporsi con la sensatezza: niente può essere modificato. Ed è proprio questo tentare senza fine a creare la sensazione di dispnea del romanzo, aumentata da una sintassi complessa che apre partentesi su parentesi (porte su porte come nel tribunale) e si arrovella su se stessa.
“Continuarono a mandar su un avvocato che percorreva la scala di corsa e dopo aver opposto resistenza, ma soltanto passiva, si faceva buttar giù ed era accolto dai colleghi. Così passò circa un’ora finché il vecchio [funzionario], già esaurito dal lavoro notturno, si stancò realmente e ritornò nel suo ufficio. Quelli del pianerottolo non credevano quasi ai propri occhi e cominciarono col mandare uno di loro a esplorare se dietro alla porta non ci fosse davvero nessuno. Soltanto allora entrarono, probabilmente senza arrischiarsi nemmeno a borbottare, Gli avvocati infatti (e anche il più piccolo si rende conto delle condizioni almeno in parte) sono del tutto alieni dal voler introdurre o imporre qualche miglioramento nel tribunale, mentre (ed è molto significativo) quasi tutti gli imputati, persino gente semplice, appena entrano nel processo cominciano subito a escogitare proposte di miglioramenti sprecando in tal modo tempo del energie che potrebbero impiegare con maggior profitto“.
Buona lettura e buone riflessioni 🙂
Cinzia Di Mauro, autrice catanese di una trilogia di fantascienza Genius (finalista Urania e Delos) Ledizioni Milano, di un noir umoristico La storia vera di un killer nano (segnalato al Premio Calvino e scelto dalla Nabu), di un fantasy orwelliano Casa Bruiswiq, di un thriller sull’alta finanza In cima alle torri e di I love Meteorite, romanzo grottesco su una famiglia e un mondo distopico.