“Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia

“Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia

Dal romanzo al thriller le righe inseguono indizi sulle tracce di frasi criptiche. Un tuffo nel bianco e un volo nel nero hanno derubato insieme le cromie precarie della vita.

L’esordio letterario di Roberta Recchia annuncia una scrittura eclettica che ha monopolizzato l’attenzione delle agenzie per ottenere diritti esclusivi sulle prossime opere della penna virtuosa.

Uno strappo che sembrava impossibile da ricucire, una famiglia che nel corso degli anni ritrova la strada nella forza dei legami. È ciò che succede con l’esordio magnetico di Roberta Recchia, una storia da cui non ci si stacca, con protagonisti vivi, autentici. Tutta la vita che resta è un romanzo prezioso e dolcissimo, doloroso, accogliente, intimo e corale, che esplora i meccanismi della vergogna e del lutto, ma soprattutto dell’affetto e della cura, e li fa emergere con una delicatezza sapiente, capace di incantare e sorprendere“.

Edito da Rizzoli “Tutta la vita che resta” fissa l’incipit negli anni Cinquanta, a Roma. Il seme di una nuova famiglia sta per germogliare nel ventre di Marisa, una bellissima ragazza circuita dalla passione per un uomo sbagliato. Una bambina verrà al mondo, ma qualche minuto dopo sarà richiamata dagli angeli lasciando nella disperazione una madre in fin di vita.

A questo punto un minuto di storia apre e chiude una doverosa parentesi del romanzo. La nevicata del ’56 rende ancora più difficile il soccorso di Marisa in preda alle febbri di un parto imminente.

Gli adulti, con gli occhi sgranati, abbracciavano con lo sguardo pieno di meraviglia quella città che s’era fatta più bella, con quel mantello da fata addosso così candido che pareva lucido, tanto brillava sotto la luce del mattino“.

Stevio, il marito che l’ha avuta in sposa con in grembo il figlio di un altro corre come un disperato per cercare di salvare lei e il bambino.

Il primo lutto della famiglia Ansaldo bussa al fallimento della felicità imbastita con il colore della pece. Commossi da tanto dolore, ancora una volta gli angeli renderanno fertile il grembo di Marisa con l’arrivo di Ettore e Betta.

Quello del lutto non era stato una molestia solitaria ma un tirocinio di una sequenza affiliata al dramma, o peggio, al thriller. In una sera d’estate fedifraga del buon fine, la giovane e bellissima Betta, appena sedicenne, viene ritrovata senza vita sulla spiaggia di Torre Domizia. Se la perdita del primo figlio non ha dato riposo all’angelo consolatore di Marisa, nulla potrà sanare lo squarcio dell’anima per la morte violenta della giovane figlia.

Ed è qui che le righe trovano la foce in cui far sgorgare i flutti delle acque malsane di un lutto. Ogni calvario propone una scelta: lasciarsi inghiottire dalle sabbie mobili che mai avresti creduto possibili nel tuo cerchio di vita terrena, oppure individuare nel dirupo un sentiero meno scosceso degli altri per un secondo battesimo nelle acque purificatrici del cambiamento.

“Tutta la vita che resta” incarna le veci del nome occultato nelle nostre carte d’identità utili per recitare l’immagine, il visibile, una pseudo concretezza. Nel fondale di un lutto vengono ammassate le macerie che a turno riaffiorano alla mente liberando tutta l’energia implosa. Alla morte violenta di una figlia la ragione entra ed esce dalle sbarre imbrattate da schizzi di vendetta subito messe a tacere dal delirio conduttore in coma profondo.

La giovane Betta è morta. Nessuno sa però che quella maledetta sera al mare, insieme a lei c’era Miriam, sua cugina, unica testimone scampata alla morte ma non alla violenza fisica. Da questo ennesimo tunnel costellato di indizi più vicini al noir che a una struttura romanzesca, Roberta Recchia dà sfogo al doveroso impulso di non tacere per compiacere la falsa morale di una collettività che censisce la vittima con una lettera scarlatta d’altri tempi.

Di chi le mani assassine, chi ha tenuto incubato il germe della violenza per farlo deflagrare sull’innocenza di Betta? E poi c’è Miriam di cui nessuno conosce lo squarcio dell’anima appesa a un filo. Chi o cosa avrebbe mai potuto salvarla?

Sarà Leo, un giovane di borgata, la vela che avvista un pesciolino arenato sulla sabbia, il marinaio che sfida le raffiche di vento per riportare alla vita “tutta la vita che resta”.

Quello di Miriam è un lutto trasparente ma al contempo invisibile a chi del bene della vista ne disconosce la potenza dello sguardo. La cura emotiva aggiunge alla molecola prestata all’uso un “nonostante” benefico che mai e poi mai ha registrato un solo fallimento.

Sotto la coperta degli affetti si nasconde un nido provvido di energie positive, provvidenziale riparo dai temporali della vita. A guardare l’oscillazione umorale del destino, la dissolvenza delle paure si fa avanti non prima di aver sanato le cicatrici della mente.

Credit Google/Ibs 

sara