“Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera

“Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera

Un diario più che un romanzo, il vestito buono della letteratura indossato da una “signorina inglese” precipitata nel limbo della malattia.

“Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera, scrittrice di narrativa, saggistica e traduttrice dal russo. Amica di Emanuele Trevi, che nel libro “Due vite” vincitore del Premio Strega 2021 racconta il fascino di un rapporto simbiotico con l’unica donna del suo gineceo tutto al maschile.

Nel 2012 Pia Pera riceve la diagnosi di essere ammalata di sclerosi laterale amiotrofica. “Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n’ero accorta”. Lui diceva di amarla, ma se quella voce provenisse da un cuore sterile, il sentimento sarebbe stato tradito due volte.
“I haven’t told my garden yet” è il titolo di una poesia di Emily Dickinson tanto amata da Pia perché “pensava contenesse un atteggiamento rivoluzionario verso la morte”.

Siamo vita necessaria al filo d’erba impaurito di andare controvento senza un riparo di foglia. Non esiste zolla di terra che non dipenda da un giardiniere per evitare di confondersi con vecchi rami accartocciati sul materasso verde.
Cosa diranno di Pia? Forse ha abbandonato l’essenziale in vista di una rinascita suffragata da un credo. A volte è più saggio un egoismo senza maschera che farsi abbindolare da un’empatica verità. Lasciare scorrere fiumi di inchiostro vestito a lutto prima di sbattere contro la luce di questo adesso.

Si crede eterno il gelsomino dissetato ad ogni giro di lancette, una mano lo cura, lo protegge da un bosco di foglie invadenti. Durerà appena il suo tempo. Quando l’ora e il minuto si incontreranno, ogni fiore, ogni foglia soffocata dalla paura dovrà imparare a sopravvivere alle stagioni zelanti a cancellare un disegno.

Il giorno in cui Pia Pera vede le sue gambe rigide come rami secchi di un albero, il ritmo del passo perde armonia, la risposta neuromuscolare che diventa precaria perché ha già deciso di abbandonare un corpo senza rughe, né capelli bianchi, ma in ostaggio della ragnatela affamata di morte.

Del suo morbo, Pia, al suo giardino non lo dice, né lo dirà mai, nulla sarà detto alle margherite, nulla alle rose, alle violette presenti all’appello scandito dal sole, quella famiglia dai mille profumi presto si accorgerà che sta per diventare orfana di una madre adottiva della Natura, madre come lei della Terra più prolifica di un grembo.

Man mano che il respiro comincia a dimenticare il suo rito di vita, il giardiniere apparecchia la terra per il giorno ormai sulle tracce dell’addio. Seduta sulla panchina, Pia spia le mani operose che hanno sostituito le sue, già rigide, incapaci di interrare bulbi di tulipani, prendere in braccio Macchia, il cane pronto ad assistere quel passo claudicante, e poi, con il sostegno delle stampelle, arrivare puntuale all’appuntamento quotidiano con la scrittura. Pia vive le giornate grata della sua mente lucida, odiosa è la notte martire dell’ansia e dai tanto spaventosi quanto innocui attacchi di panico. Sintomi generati dalla consapevolezza di doversi abbandonare al destino scritto sopra un calendario sbagliato.

Nella casa di Pia, accade che una folla di voci amiche annulli ogni possibilità di concedersi una solitudine urgente. Si considerano prove di cure sperimentali, nient’altro che fallimenti annunciati.

Non manca la voce sul biglietto del viaggio senza ritorno nella clinica di Zurigo, quella “Dignitas” che dignità toglie invece di dare. Corpo e anima offerti all’iniezione letale come pena di un peccato mai commesso. Parvenza di libertà da censurare con le poche forze rimaste su quel letto occupato giorno e notte da una donna innamorata della vita.

Immersa nella dimensione della malattia, Pia si concede di leggere l’ultima pagina della sua esistenza sotto lo sguardo di una clessidra immortale negata ad ogni essere vivente.

Ancora un po’ di calore, benedetto l’indugio degli amici ai piedi del letto, padre della verità dura a mandar giù senza un singhiozzo affogato in un pianto sommesso. Prima che la coscienza limpida e cristallina non pronuncerà il suo addio, il sole continuerà a tornare a rate sulle lenzuola rassegnate all’ineluttabile. Sono maledette e sono vincenti, le ultime gocce di parole a sigillo di un memoir scritto tra le promesse della natura. Spente le luci, ai suoi cari non resta che abbracciare la gratitudine per avere avuto e amato il profumo nobile di Pia, penseranno poi come combattere il suo destino criminale.

“Forse, quando si tratta di morire, il giardiniere non è più giardiniere. Lo scrittore non è più scrittore. Forse, quando si tratta di morire, arriva la consapevolezza del proprio essere indefiniti. Quell’essere indefiniti che, meditando, si impara ad accettare. Indefinito, immerso nell’infinito, parte dell’infinito”.

Una commovente cronologia di inesorabili lutti chiudono, una dopo l’altra, le finestre sul mondo di una giovane scrittrice. Di Pia Pera sarà custodita memoria del suo breve viaggio in debito con una donna appassita tra le braccia del suo giardino.

sara