“Una specie di felicità” di Francesco Carofiglio

“Una specie di felicità” di Francesco Carofiglio

Misurare l’equilibrio del tempo si deve. Superarlo è un rischio che fa paura, ma ostinarsi a vivere fissando l’ago della bilancia equivale a una dichiarazione di fallimento proclamata con un cospicuo anticipo.

Giulio d’Aprile è uno psicoterapeuta brevettato dallo scrittore pugliese Francesco Carofiglio, negli ultimi anni prolifico autore di titoli interessati a scavare nell’intimità dei personaggi. La lettura compiuta di “Una specie di felicità” conferma che “di felicità” nessuno è mai vissuto, a parte qualche battito fuori norma dimenticato da “una specie” imprevedibile di sorte.

La storia richiede il plurale. Due, tre, tanti di più sono i tentativi in cui l’oasi di una parola diventerà casa di un dizionario. Il dottor Giulio d’Aprile è un uomo moderno con una ex moglie frutto di una separazione moderna, due figli condivisi secondo sentenza e uno studio completo di poltrona di pelle riservato al paziente che non trova risposte ai suoi mille perché.

Su quella poltrona siedono in tanti ma non lui, Giulio, ombrello di soccorso per i violenti acquazzoni nella vita di un uomo ma non per sè, sottoposto alle intemperie di una ragione insicura di ogni adesso. Tra un tunnel e un corridoio Giulio sceglie il secondo. E si perde. Il primo promette luce, nella sua magnanimità a volte ne scopre un frammento. Il corridoio lusinga e illude. Imbroglia. Giulio d’Aprile cade nella rete come un pesciolino allontanato dal banco. Inutile è ogni movimento per sciogliersi dai nodi sempre più catene, spasmi di oppressione al petto lo tengono legato all’inquietudine del suo vivere.

La medaglia tenuta in disparte come premio per la giusta occasione accade un giorno. Nell’Istituto dove indaga nel circuito del cervello senza l’ausilio di un solo bisturi nè di lampade ad alto voltaggio di una sala operatoria, il dottor Giulio d’Aprile incontra un ex Professore di Università. Una delle tante camere del Centro ospita un uomo anziano in un ambiente accogliente, ottime cure, ottimo servizio,
per lui quel soggiorno corrisponde più ad un ritiro spirituale che a curare un disturbo psicologico. È un uomo che soffre tirando le redini di un tempo antico e malato, anziché liberarle dalle porte di un tribunale ingiusto.

E così Giulio ritorna studente, il Professore ritorna a insegnare. Lo studio privato dello psicoterapeuta trasloca nella camera elegante dell’accademico in pensione. L’allievo Giulio d’Aprile si reca due volte la settimana a lezione di umana infelicità del mondo intorno a sé. Lunghi silenzi divorano un’ora per essere interrotti da sguardi con più di un punto interrogativo in comune.

Due elementi saturi di un vuoto convalescente salgono insieme sulla nave al largo delle loro angosce, convinti di non poter guarire. E invece il dialogo cresce e matura, riportando a galla la memoria di eventi intestarditi a restare dove non si può, dove non si deve.

L’indagine proiettata sul disagio del Professore conduce a fare emergere un trauma incancrenito nelle cellule nervose costantemente all’erta: il suicidio di una ragazzina in terapia nello studio del Professore confonde la società e i giudici chiamati a emettere un verdetto senza un colpevole.

Una foglia fresca di brina precipita sul selciato e con essa l’albero maestro viene inghiottito dal vortice impietoso della sua coscienza. Dalla finestra della sua camera, il Professore fissa il passante compenetrato nel mondo, il passo fluido contrapposto all’inerzia di chi guarda da estraneo la sua stessa presenza.

Intanto Giulio ascolta, prende appunti. E impara. Davanti a sé vede sgretolarsi l’impero di fallimenti messo su errore dopo errore, il rapporto a singhiozzo con i figli, la relazione lunga appena un tramonto, calda il tempo di un caffè al mattino. Perchè i movimenti di Giulio generano uno stato ansioso, è un disagio da approfondire nella cornice che lo vede protagonista solo nella firma in basso a destra. La tela raduna figure e fatti in piena azione di scosse benefiche all’energia vitale, mentre nel suo angolino appartato il buon Giulio, ex marito, padre part-time, amante per una notte, siede nel suo quieto vivere astratto e distratto.

Sono persino troppe le felicità a cui Giulio aspira fissando il traguardo con le braccia conserte, su cosa potrà contare la nuova stagione, se quella prima si è adagiata sulle fatiche della natura abbandonata a se stessa?

Quando non riusciamo a capire che cosa causi certi comportamenti o problemi, tendiamo sempre di attribuire il fenomeno all’inconscio. Ed è un po’ come se ci trovassimo in una stanza e avessimo perso un oggetto. Siamo convinti di poterlo trovare soltanto in quella stanza. Fissiamo dall’inizio dei parametri che ci condizionano. Quindi continuiamo a cercarlo senza trovarlo, pensando che sia nascosto da qualche parte in quella stanza. E invece, forse, è fuori, da quella stanza. È altrove“.

Giulio ritroverà la rotta quando, a metà strada del percorso, una lezione lontana dalle mura scolastiche e un calendario all’indietro gli ricorderanno la password del file registrata con il numero dei giorni sprecati. La furia dell’errore spinge la fretta affinché lo compia precipitando nel pozzo dei desideri negati, l’ala ferita e curata spiegherà poi la meraviglia del volo.

I giorni buoni, i giorni felici, le persone che sorridono e passano, la vita fatta di cose semplici, il disordine delle stanze, tutti quei libri da leggere, le luci delle navi, le domeniche dell’infanzia, e il dolore secco, senza più risposte. Ce ne stiamo seduti e non parliamo. E magari guardiamo il mare.

E in quel silenzio ci confondiamo, immaginando un futuro qualsiasi. Migliore del presente e più vicino al passato. Che la memoria selettiva ci restituisce netto, pulito dalle incrostazioni della sofferenza e dell’abitudine. E dinanzi ai nostri occhi disegna una linea sottile, lunga, fino all’orizzonte“.

Francesco Carofiglio si mostra fin troppo generoso con i dialoghi, tanti, una staffetta di domande e risposte alla stregua di un quiz anni ’80. Avrebbe potuto farne a meno, per garantire la continuità di una storia spesso interrotta da una asfissiante punteggiatura in processione. Avrebbe potuto concedere più pagine alla lezione del Professore, al fine di maturare il percorso per raggiungere “una specie di felicità“.

 

 

 

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