Nel nome di Daphne

Nel nome di Daphne

CATANIA – Erano le 14,58 del 16 ottobre 2017 quando una bomba piazzata nella sua Peugeot 108 ha spezzato brutalmente la vita di Daphne Caruana Galizia, la giornalista investigativa che con le sue inchieste aveva fatto luce sui legami tra la politica e la finanza nera a Malta.

Due settimane prima che la sua voce venisse spenta a Bidnija, a pochi passi dalla sua abitazione, la giornalista 53enne aveva denunciato alla polizia le minacce di morte subite.

Uno dei tre figli di Daphne, Matthew (membro del Consorzio Internazionale di Giornalismo Investigativo – ICIJ – premiato col Pulitzer per il lavoro sui Panama Papers), fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell’attentato: aveva sentito l’esplosione da casa e aveva intuito prima di tutti cosa fosse accaduto.

Daphne aveva curato il filone maltese dell’inchiesta internazionale, i cosiddetti “MaltaFiles“, dimostrando che l’isola era diventata lo snodo cruciale del riciclaggio nel cuore dell’Unione Europea.

Per le sue rivelazioni, la giornalista era stata inserita proprio lo scorso anno dalla testata Politico.eu nella lista delle “28 persone che stanno agitando l’Europa“.

Per anni, in solitudine, Daphne aveva cercato la verità e aveva informato i lettori attraverso le colonne del suo blog Running Commentary. Un impegno portato avanti fino alla fine: l’ultimo post pubblicato dalla giornalista risale infatti alle 14,35 del 16 ottobre di un anno fa, pochi minuti prima di morire.

Ancora oggi non è stata fatta piena chiarezza sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia. Chi ha voluto la sua morte aveva il chiaro obiettivo di soffocare il lavoro che aveva portato avanti per tutta la vita. Ma non ci è riuscito. Perché 45 giornalisti di 18 diverse testate internazionali (tra le quali Repubblica, New York Times, The Guardian, Reuters, Die Zeit, Le Monde, France 2), hanno portato avanti le inchieste della blogger. A coordinare il “Daphne Project“, l’organizzazione giornalistica non profit Forbidden stories, impegnata a portare avanti il lavoro interrotto di giornalisti assassinati o ridotti al silenzio in carcere.

Per ricordare la giornalista maltese, nel primo anniversario della sua morte, prendiamo in prestito le parole pronunciate all’Ocse, a Vienna, da un altro dei figli di Daphne, Paul, oggi più attuali che mai mentre la libertà di stampa è sotto attacco: “L’impunità di chi minaccia o uccide giornalisti è un nostro problema. Non loro. Ogni ferita inflitta a un giornalista è una ferita inflitta a ciascuno di noi e si trasforma nel tempo in una perdita che siamo in grado di avvertire quando è troppo tardi. Ed è questa la strana cosa che accade quando muore un giornalista. Che il senso di perdita collettivo supera quello individuale. I giornalisti perdono le loro vite. Noi che gli sopravviviamo, perdiamo il nostro diritto a sapere, parlare, a imparare. Né l’impunità di chi minaccia e aggredisce i giornalisti è semplicemente un attacco alla libertà di stampa e di espressione. Perché la libera circolazione della conoscenza dei fatti, delle opinioni, crea società più libere e consapevoli. Più ricche e resilienti. Detto altrimenti, società in cui vale la pena vivere“.