Compravendita di neonato: per la Cassazione non è riduzione in schiavitù

Compravendita di neonato: per la Cassazione non è riduzione in schiavitù

“Maternità surrogata”, “maternità assistita”, “utero in affitto”, “gestazione di sostegno” : termini sempre più utilizzati in un’epoca storica infertile. E cosa fa la popolazione, sempre più numerosa, delle coppie che non riesce ad avere un figlio naturalmente? Molti vanno all’estero, altri scelgono l’adozione, qualcuno rinuncia. Raramente ma, purtroppo è capitato, taluno compie il gesto estremo, certamente non condivisibile: cessione uti filius di un minore.

Sull’argomento è intervenuta alcuni giorni fa la Corte di Cassazione, V Sezione Penale (sentenza n. 1795 del 18 gennaio 2016 ), che ha qualificato il tipo di reato, escludendo che sia un delitto di riduzione in schiavitù.

Questo il caso: una coppia di coniugi, per il tramite di alcuni intermediari, si adoperava per procurarsi un minore proveniente dalla Romania con lo scopo di acquistarlo uti filius dietro pagamento di una somma di denaro. Il piccolo veniva ceduto dalla madre naturale, con la complicità del fratello. I Giudici di primo e secondo grado avevano qualificato la condotta come reato di riduzione in schiavitù. La Corte di Cassazione, invece, adita su istanza del PM, nel recepire un orientamento risalente nel tempo, sanciva che “non integra gli estremi del delitto di riduzione in schiavitù la cessione uti filius di un neonato ad una coppia di coniugi, in quanto la fattispecie incriminatrice di cui all’art.600 c.p. è connotata dalla finalità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel senso che, in tal caso, il soggetto attivo, non solo esercita un potere corrispondente al diritto di proprietà, ma deve anche realizzare la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione del soggetto passivo ed entrambe le condotte sono preordinate allo scopo di ottenere prestazioni lavorative, sessuali, di accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportano lo sfruttamento. Ciò non si configurava nel caso in specie, ove invero il bambino veniva accolto, sia pure contra legem, in una famiglia nella quale era destinato ad essere considerato, trattato e accudito come un minore bisognevole di cure e di affetto. Come un vero membro della famiglia“.

Secondo la Suprema Corte, nel caso in specie si configura invece il delitto di alterazione di stato, di cui all’art. 567 c.p. Tale diposizione prevede testualmente che “chiunque, mediante la sostituzione di un neonato, ne altera lo stato civile è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità”.

La norma richiede il dolo generico, cioè chi commette il delitto deve essere consapevole della falsità della dichiarazione, deve volerla effettuare e deve avere attribuito al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura. In buona sostanza la dichiarazione resa in sede di formazione dell’atto di nascita deve attribuire al figlio riconosciuto una discendenza che non gli compete secondo natura. Secondo la giurisprudenza difatti, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 567, comma 2, c.p., è necessaria un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un “quid pluris” rispetto alla mera falsa dichiarazione, e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza, in conseguenza dell’indicazione di un genitore diverso da quello naturale.

Ma allora come si possono evitare gesti così estremi? Sarebbe utile introdurre una legge in Italia che permetta la “surrogazione di maternità” o “gestazione per altri” ovvero consenta ad una donna di portare avanti una gravidanza per un’altra donna la quale, per diversi motivi, non può essere la madre naturale? La c.d. legge 40 sulla maternità surrogata in Italia prevede che «chiunque al fine di accedere allo stato di madre o di padre, fruisce della pratica di surrogazione della maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con una multa da 600 mila a un milione di euro». La pena è ancora più aspra per chi «organizza, favorisce o pubblicizza la pratica di surrogazione della maternità»: la reclusione prevista in questi casi andrebbe dai 6 ai 12 anni.

L’augurio è che presto intervenga una legislazione ad hoc che ponga fine alla prassi, ormai consolidata, di andare nei paesi esteri al fine di diventare genitori, con metodologie che in Italia vengono ancora invece considerate fattispecie di reato.

Avvocato Elena Cassella del Foro di Catania