CATANIA – Interviste pubbliche rilasciate ad alcune emittenti locali le sono costate il posto di lavoro; prima un “richiamo” formale, poi il licenziamento in tronco: è la storia di Grazia Restivo, educatrice professionale di 63 anni, di cui oggi vogliamo raccontarvi, grazie alle parole della diretta interessata intervenuta ai nostri microfoni. Per sé stessa, ma soprattutto per gli altri, per i colleghi, come lei, e per la gente comune. Per infondere coraggio anche quando è difficile trovarlo.
La storia di Grazia Restivo, lavoratrice Oda
Il calvario di Grazia inizia nel 2018, quando poco dopo le dichiarazioni pubbliche di cui vi abbiamo anticipato, l’azienda Oda – dove la donna era impiegata – le ha inviato una “lettera di richiamo” che si è poi trasformata in licenziamento. Tra le motivazioni ci sarebbe stata quella di raccontare una realtà effettiva, ma anche di essere stata poco “fedele” all’azienda per cui prestava servizio, mettendola così in cattiva luce.
Tutto parte dai ritardi nei pagamenti degli stipendi, di Grazia e dei colleghi, ma di cui solo la protagonista della vicenda si è fatta portavoce. Contro tutti e contro tutto. Coraggiosa, più degli altri, ha manifestato il suo dissenso verso l’azienda del territorio catanese Oda, non solo per i ritardi nei pagamenti, ma anche per una assenza di comunicazione tra l’azienda e il personale. “Non sapevamo mai in quale giorno del mese avremmo percepito il nostro compenso, né tantomeno se la retribuzione avrebbe subìto ritardi“, spiega Grazia.
E di ritardi, diciamocela tutta, negli anni ce ne sono stati anche troppi. Tanto che alcuni dipendenti hanno visto scivolare via la loro vita dalle mani, perdendo la dignità, come dipendenti prima, e come padri/madri di famiglia, dopo. Ricorrendo, in taluni casi, anche a metodi “estremi”, per racimolare qualche somma di denaro per “sopravvivere”. Perché per vivere, a pieno, la dignità non deve mai essere lesa.
E Grazia, la sua dignità, se l’è vista restituire. Se l’è ripresa, con le unghie e con i denti. Con gli interessi, quando ha deciso di impugnare il licenziamento, che dopo quasi due anni di via vai in Tribunale, ha portato alla reintegra della lavoratrice nella Fondazione Oda. È stata collocata, però, in un’altra struttura di lavoro, che accoglie minori con provvedimenti civili e penali italiani. La realtà è ben diversa dalle aspettative, perché in un paese democratico la possibilità di espressione ed informazione dovrebbe essere garantita ad ogni individuo. In questo caso, Grazia ha avuto “la meglio” ottenendo nuovamente il suo posto di lavoro: il Tribunale ha riconosciuto la sua innocenza.
Diritti violati, quando lavoro è sinonimo di sfruttamento
Ancora oggi in Italia la retribuzione e le condizioni dei lavoratori sono argomenti tabù. La Costituzione prevede diritti e doveri. Un diritto è quello di svolgere un’attività lavorativa, ma di contro il dovere di un datore di lavoro è di erogare la retribuzione in modo proporzionato alla qualità e quantità di lavoro eseguito e ad ogni modo sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa.
La storia di Grazia è simile a quella di tanti altri italiani che non trovano la forza di reagire, di alzare la testa davanti ai diritti. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro“, è quanto recita l’art. 1 della nostra Costituzione. L’art. 4 continua: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto“. L’esistenza di un contratto lavorativo obbliga il datore di lavoro – nel rispetto del diritto sopracitato -, di erogare una retribuzione. Ma nella vita di tutti i giorni ci si scontra con una realtà ben distante dalle aspettative.
Che la storia di Grazia sia di aiuto a chi, ogni giorno, non fa nulla per vedere garantiti i propri diritti. Perché tra il bisogno di lavorare e lo sfruttamento passa un filo sottile, che per nulla al mondo bisogna oltrepassare.
Articolo a cura di Rossana Nicolosi e Floriana Garofalo