SICILIA – È in realtà dall’inizio del 2021 che si celebrano e ricordano con devota passione la vita e le parole di Dante Alighieri, ma proprio oggi – questo 14 settembre – è quasi di dovere rileggere, anche se per pochi minuti, qualche verso del Sommo Poeta.
Proprio nella notte tra il 13 e il 14 settembre, infatti, Dante spirò un’ultima volta prima di abbandonare fisicamente questa terra, morendo di malaria a Ravenna nel 1321. Durante quest’anno, infatti, si ricordano i 700 anni dal giorno fatale della morte del Poeta.
Oltre alla Divina Commedia e ai componimenti d’amore tipici del Dolce Stil Novo, dalle mani di Dante uscirono tanti altri diamanti che dal carattere tenero e docile dei testi amorosi si discostavano per lasciare spazio al mondo della politica, della cultura, della tradizione. Proprio fra questi si erge maestoso il De vulgari eloquentia, trattato scritto in lingua latina che, come scopo ultimo, aveva quello di spiegare quanto il dialetto – il volgare – fosse bello e affascinante.
Dante e il volgare siciliano, fu amore o odio?
“E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano”, questa fu una prima parte dell’analisi del volgare siciliano che Dante scrisse all’interno del suo trattato.
Sono di certo belle parole dedicate alla nostra lingua, eppure non è propriamente corretto affermare che Dante amasse follemente il volgare siciliano: i versi sopracitati, in realtà e diversamente da quanto diffuso sul web, proseguono.
“Diciamo allora che il volgare siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell’isola di estrazione media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita assolutamente l’onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza; come ad esempio qui: ‘Tragemi d’este focora se t’este a bolontate’. Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni, non differisce in nulla dal volgare più degno di lode, e lo mostreremo più sotto”.
Il sunto quindi è semplice: il volgare siciliano sarebbe anche una splendida lingua – forse anche la prima in assoluto per dolcezza e romanticismo – ma per il Sommo Poeta, al toccarsi delle labbra questa risulta lenta e complicata nella pronuncia.
Nel contesto è comunque corretto ricordare che l’esempio fonico al quale Dante si rifaceva era certamente quello della lingua “toscanizzante”, più breve e celere nella pronuncia rispetto ai suoni lunghi tipici del dialetto siciliano.
La Sicilia nel cuore
Ciò non toglie, però, che l’Isola è sempre rimasta nel cuore di Dante Alighieri, che la ammirava e adorava a distanza: culla del sapere, la Sicilia è sempre rimasto un sogno irrealizzato, infatti il Poeta non vi posò mai piede.
All’interno della Divina Commedia, infatti, in diversi punti Dante decise di citare la nostra terra e ricordarla, descriverla nei suoi endecasillabi.
“E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo / che riceve da Euro maggior briga, / non per Tifeo ma per nascente solfo, / attesi avrebbe li suoi regi ancora, / nati per me di Carlo e di Ridolfo, / se mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti, non avesse / mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’”, questa una prima descrizione.
Oltre ai riferimenti all’Etna (“in Mongibello a la focina negra”), alla vasta cultura e conoscenza di Dante non passarono inosservati nemmeno i miti e le leggende del posto, tanto da permettergli di riferirsi a Scilla e Cariddi, forze opposte in eterna lotta, all’interno del canto VII dell’Inferno: “Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa”.
Il ricordo nel Dantedì
Si chiama Dantedì e si celebra ogni 25 marzo la giornata dedicata al Poeta Dante Alighieri, voce ancora viva della storia della letteratura italiana.
Sentito profondamente in Sicilia, proprio in questo giorno l’Assessore regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana Alberto Samonà ha dedicato alcune parole al Poeta: “Non si può non ricordare il suo amore per la Sicilia e l’alto concetto riguardo il Siciliano, non un semplice dialetto, ma una lingua. Il Sommo poeta, d’altronde considerava la ‘scuola siciliana’ Federiciana alle origini della nostra lingua e letteratura e il suo promotore, Federico II di Svevia, nonostante la collocazione all’Inferno perché ‘eretico epicureo’, un grande imperatore in quanto il suo regno era espressione di civiltà, spirito etico e magnanimità“.
“E l’amore di Dante per la nostra Terra e il suo Vulcano – ha concluso l’assessore Samonà – lo ritroviamo nell’VIII canto del Paradiso con una descrizione molto precisa. Pur non essendoci testimonianze storiche su una sua presenza in Sicilia, infatti, non possiamo non rimanere colpiti dai suoi versi che, veicolati da Carlo Martello, fanno fare, anche a chi non c’è mai stato, un viaggio immaginifico in questo avamposto del Mediterraneo, elogio continuum di bellezza così amato dagli Dei, in cui abbiamo la fortuna di abitare”.