ITALIA – A parlare di lavoro nel nostro Paese, ci si morde spesso la lingua. Nel corso delle ultime settimane, a tal proposito, è diventato sempre più arroventato il dibattito incentrato sui giovani e la loro propensione all’attività lavorativa.
La narrazione recente ha posto sotto i riflettori le testimonianze di numerosi imprenditori che, a loro dire, non riuscirebbero a trovare lavoratori.
C’è stato chi, per l’occasione, ha pensato di rispolverare vecchi luoghi comuni del tipo “il lavoro c’è, ma i giovani non hanno voglia di lavorare” o “i giovani non vogliono più fare certi lavori“, senza però concentrarsi sulla qualità dell’offerta presentata.
Il lavoro “truffa”
Scorrendo le bacheche online degli annunci lavorativi le opportunità allettanti non sembrano mancare, ma in fase di colloquio è facile imbattersi in amare sorprese.
Ed è così che il lavoro dei sogni, ben retribuito e con un ampio ventaglio di benefit, si tramuta come per magia in uno stage sottopagato con finalità totalmente differenti.
In altri casi, ci si imbatte in un’occupazione umiliante che obbliga il lavoratore-schiavo a impegnarsi anche oltre l’orario lavorativo, barattando la propria libertà per una misera pacca sulle spalle da parte del “capo”, compiaciuto per la “devozione” mostrata.
Proprio il numero di ore quotidiane da dedicare al lavoro è da anni un tema caldo non solo in Italia, ma anche in altre aree del mondo. Di recente la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo ha invitato la Commissione europea a varare una legge sul diritto alla disconnessione per tutelare il benessere e i momenti di riposo del lavoratore.
La settimana corta
In alcuni Paesi, invece, si sta valutando con estremo interesse l’ipotesi della cosiddetta “settimana corta”, consistente in una settimana lavorativa composta da 4 giorni anziché 5, senza una riduzione dello stipendio.
La settimana lavorativa di 4 giorni è stata sperimentata con successo tra il 2015 e il 2019 tra i dipendenti del Comune di Reykjavik, in Islanda, con l’intento di verificare gli effetti della diminuzione dell’orario lavorativo sulla produttività e la soddisfazione dei soggetti partecipanti.
Il test è stato analizzato da Autonomy, società di ricerca britannica, in sinergia con Association for Sustainability and Democracy, con esiti più che positivi. I dipendenti, lavorando meno, sarebbero riusciti a mantenere la produttività costante subendo un impatto minore di stress. Allo stesso tempo, sono aumentate le occasioni in cui è stato possibile dedicarsi al tempo libero e agli affetti.
La settimana corta, comunque, non può essere considerata una novità assoluta in Europa. Nel 1997 in Francia era stata già presentata la proposta – divenuta poi legge nel 2002 – di fissare da 39 a 35 le ore lavorative settimanali. Un adeguamento simile è stato deciso anche per quanto riguarda la scuola, con la giornata del mercoledì a orario ridotto o totalmente libera.
L’opportunità del Covid-19
Inutile negarlo, il mondo sta cambiando velocemente. Anche sotto il punto di vista lavorativo. L’avvento della pandemia da Coronavirus ha fornito una spinta non indifferente a una nuova concettualizzazione della stessa esperienza occupazionale.
Il lockdown del 2020, poi, ha “abbattuto” la reiterazione del percorso casa-lavoro e lavoro-casa, accelerando l’emersione di modelli di lavoro differenti come lo smart working o il near working.
Ma cosa potrebbe accadere nell’eventualità di una seconda chiusura? Come potremmo comportarci in caso di una nuova emergenza sanitaria o persino climatica (i recenti auspici non lasciano presagire nulla di buono) nel giro di pochissimi anni? Come supereremmo lo stress?
L’idea dell’orario rigido è già superata. La nuova sfida per l’uomo, anche in questo ambito, riguarderà la rimodulazione degli spazi e il giusto bilanciamento degli equilibri tra vita lavorativa e privata.