CATANIA – “Per insegnare bisogna emozionare. Molti però pensano ancora che se ti diverti non impari“, scriveva Maria Montessori. La scuola, infatti, non è soltanto un luogo in cui apprendere nozioni, ma è fatta di sguardi, sensazioni, contatto visivo e umano. Bisogna mettere in ballo testa, cuore e voglia di trasmettere il proprio bagaglio culturale.
In ogni contesto l’istruzione è fondamentale, soprattutto è necessario che non venga interrotta per cause esterne che esulano dalla volontà degli studenti.
A Catania, grazie ad una collaborazione tra il dirigente scolastico Vincenzo Costanzo e il primario del reparto di Pediatria dott. Raffaele Falsaperla, da oltre un decennio, l’Istituto Comprensivo “Dusmet-Doria” ha istituito una sezione presso l’ospedale San Marco dove i ragazzi ricoverati possono comunque proseguire il loro percorso di studi, non interrompendo l’istruzione scolastica, guidati da insegnanti preparate che – regolarmente – si prendono cura di loro svolgendo lezioni ogni mattina.
Un insegnamento “peculiare”
Ai microfoni di NewSicilia, a tal proposito, è intervenuta la professoressa Ivana Bottari, che insegna Lettere alla scuola secondaria di primo grado e, da 6 anni, ha scelto di essere docente nella sezione ospedaliera del San Marco, coordinata proprio da lei.
“L’insegnamento in ospedale ha delle peculiarità uniche. Questo porta a staccarsi dal programma nel senso tradizionale del termine, per applicare e realizzare interventi formativi centrati sulla persona, caratterizzati da trasversalità ed essenzialità. Dunque durante le mie ore di lezione cerco di predisporre attività didattiche personalizzate, adatte alle condizioni psicofisiche degli allievi e collegate al curricolo della classe frequentata che appare il contesto più motivante in cui il ragazzo/a si riconosce“, spiega.
L’approccio in corsia
Esiste un filo sottile che lega il ragazzo al docente, coinvolgendolo, catturando la sua attenzione e stimolando la sua curiosità e il suo interesse. Il tutto va calibrato ascoltando i suoi bisogni.
Ma come ci si approccia all’alunno ricoverato in ospedale? “L’accoglienza è il mio primo step. Questa fase avviene tramite un primo incontro conoscitivo nella camera di degenza. In base alla mia esperienza è un momento determinante per la successiva relazione educativo-didattica“, sostiene l’insegnante Bottari.
Poi ha aggiunto: “Instauro così con il bambino/ragazzo e con il genitore (presenza importante da non sottovalutare mai) un rapporto di collaborazione per creare quel clima di serenità e fiducia che pone i presupposti di una proficua attività di tipo cognitivo. Io, docente, devo sempre ricordare, direi come prima cosa, di avere a che fare con ragazzi e adulti che soffrono, fisicamente e psicologicamente. Così si avvia la conoscenza della situazione scolastica dell’allievo“.
Il docente come àncora di salvezza
Ecco che il docente, che è pronto ad ascoltare i suoi alunni e che è lì appositamente per loro, diventa un àncora di salvezza, una scialuppa in mezzo al mare indispensabile sia per la crescita culturale che per quella umana. Con l’emergenza Coronavirus, però, è venuta meno la rassicurante presenza in corsia degli insegnanti ospedalieri accanto ai bambini e ai ragazzi costretti all’immobilità e all’isolamento a causa delle loro patologie.
In questo contesto mutato, anche l’istruzione e le modalità di trasmissione del sapere sono necessariamente – e forzatamente – cambiate: “Si sono rivelati particolarmente utili gli strumenti che permettono una comunicazione a distanza come il collegamento via web, anche quando l’allievo viene dimesso ma persiste la sua condizione di malattia, per consentire l’invio e la ricezione di materiali tramite mail, piattaforma o smartphone”.
“Utilizzare la didattica a distanza si è rivelato, talvolta, per l’alunno un metodo prioritario per non perdere il contatto con professori, compagni e realtà scolastica, offrendo altresì una organizzazione alla giornata dell’allievo malato, altrimenti difficile da ottenere in momenti in cui la vicinanza e il contatto umano ci sono stati preclusi“, aggiunge.
Essenziale il contatto umano
Quello che più manca è il contatto umano, fondamentale con gli studenti/degenti. La professoressa Ivana Bottari ha specificato: “In Pediatria (dove si svolge la gran parte del nostro lavoro) siamo in contatto con pazienti ad elevata complessità assistenziale e spesso con casi molto particolari. Dunque la capacità di noi docenti di stabilire un contatto sul piano umano e, allo stesso tempo, modulare la nostra professionalità e adeguatezza didattica, è cresciuta assieme alla specializzazione sempre più elevata dei casi e della malattia dei ricoverati“.
“Dunque altrettanto importante si rivela il contatto con i medici e il primario, che mai ci fanno mancare il loro supporto“: diventa necessaria, quindi, una collaborazione con altre figure di spicco in ambito ospedaliero per creare quell’humus fertile dove il ragazzo si sente compreso e, in un certo senso, a “casa”.
“La scuola in ospedale ogni anno fa la differenza”
Nel frattempo, così, l’alunno è anche più stimolato nell’apprendere e la scuola in ospedale si rivela essenziale per un duplice motivo: “Interrompe l’isolamento causato dalla malattia e consente ai ragazzi di non restare indietro rispetto al programma scolastico della classe di appartenenza“.
“Mi piace trasmettere, in questo brutto periodo in cui si parla solo di Covid e di DAD, un messaggio positivo: ricordare e ricordarmi che l’istituzione della Scuola In Ospedale ogni anno fa la differenza nei percorsi di vita e di studio di migliaia di studentesse e studenti costretti a lunghe degenze e a terapie complesse, spesso destruenti fisicamente e psicologicamente“, conclude la nostra intervistata.
Essere docente: “missione” e “sfida”
Non dimentichiamoci che essere un docente non è un mestiere semplice o scontato, è una sorta di “vocazione”, una missione che si sceglie di intraprendere nei confronti di coloro che saranno – inevitabilmente – il futuro di domani. Avere la capacità di insegnare vuol dire entrare a far parte di un universo complesso dove il professore non deve essere un mero oratore o un trasmettitore di sapere.
La vera “sfida” è appassionare gli alunni, motivarli e renderli quasi “innamorati” della cultura, rispettando lo spazio individuale di ciascuno, con annesse eventuali difficoltà o impedimenti. George Bernard Shaw, scrittore irlandese, sosteneva: “Quello che vogliamo è vedere il ragazzo alla ricerca della conoscenza e non la conoscenza alla ricerca del ragazzo“. Proprio in questa frase sta tutto il senso del “fare scuola”. Nulla più, nulla meno.