MESSINA – Messina città tranquilla, dove non succede mai niente, dove la mafia non esiste. Messina città “babba” (tonta, in siciliano). Un alibi perfetto per coprire una realtà ben diversa. Che una piovosa sera di gennaio, però, si palesa in tutta la sua efferatezza.
L’omicidio del professore Matteo Bottari
Sono le 21 circa del 15 del primo mese dell’anno 1998. Il professore Matteo Bottari, primario endoscopista al Policlinico di Messina, ha da poco lasciato la Clinica Cappellani in cui opera. Per lavoro si divide tra diverse strutture messinesi e calabresi. È a bordo della sua Audi 100 nera, fermo all’incrocio tra viale Regina Elena e viale Annunziata. Sta parlando al telefono con la moglie mentre aspetta che il semaforo diventi verde. Ancora pochi minuti e sarà a casa dopo una lunga giornata di lavoro. In quell’istante qualcuno lo affianca e gli spara due colpi in faccia. L’auto di Bottari si rimette mestamente e lentamente in moto, attraversa l’incrocio e finisce contro la saracinesca di una videoteca.
Lo hanno ucciso con dei pallettoni ramati scaricati con un fucile a canne mozze calibro 12. Modalità solitamente utilizzate per la caccia ai cinghiali, ma anche tipiche delle ‘ndrine calabresi. È l’omicidio che squarcia il velo sul “verminaio Messina”, l’espressione coniata dall’allora vicepresidente della commissione parlamentare antimafia Nicky Vendola.
Matteo Bottari, 49 anni, era un figlio illustre di Messina. Stimato medico e docente universitario, dirigeva la clinica di endoscopia chirurgica dell’Università di Messina. Era, inoltre, il genero dell’ex rettore Guglielmo Stagno d’Alcontres e braccio destro del suo successore, Diego Cuzzocrea.
Un noto quotidiano locale il giorno dopo l’omicidio scrive: “I due colpi hanno spappolato una parte del volto del prof. Bottari (che piaceva anche a donne sposate)”. Un appunto tra parentesi che suscita scalpore per la sua indelicatezza (e per il quale il giornale nell’edizione successiva si scusa), ma che sottolinea la prima pista seguita dagli investigatori: quella del delitto passionale. Un buco nell’acqua.
Il “caso Messina” e gli affari legati all’Università
Le indagini della Squadra Mobile e della Criminalpol, coordinate dal pm Carmelo Marino, si orientano presto verso gli appalti dell’Ateneo messinese.
Intanto, l’11 febbraio, la commissione antimafia arriva nella città dello Stretto. In tre intense giornate di audizioni traccia un quadro inquietante, lontanissimo da quello idillico propinato della città serena e immacolata. Messina è descritta come governata da un “grumo di interessi” politico-affaristico-mafiosi che avrebbe il suo fulcro all’Università. Il motivo della centralità dell’Ateneo è presto spiegato: gestisce un budget di appalti di 250 miliardi di lire. Per le forniture farmaceutiche al Policlinico, per le pulizie, finanziamenti e ristrutturazioni. Si parla anche di concorsi truccati, esami comprati e false lauree stampate da una tipografia “specializzata”. L’Università è, insomma, un buon affare che fa gola a molti, criminalità organizzate delle due rive dello Stretto comprese.
Il vaso di Pandora, il “caso Messina”, è stato appena aperto. Le indagini dal Policlinico si estendono alle istituzioni e investono i politici. I commissari muovono le prime accuse contro il Palazzo di Giustizia e il sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni, ex magistrato a capo del pool mani pulite messinese. Come tessere del domino, in successione tocca alla Procura. È retta da Antonio Zumbo, cognato del fratello del Magnifico Rettore. Secondo le accuse sarebbero state avviate numerose inchieste al solo fine di sollevare un polverone e non scalfire gli interessi e gli equilibri esistenti.
Le prime teste cadono in seguito alla relazione dell’antimafia. Il presidente del Consiglio Romano Prodi costringe alle dimissioni il sottosegretario Giorgianni per i suoi rapporti con discussi imprenditori, mentre i magistrati Marino e Zumbo cambiano sede. Anni dopo tutti e tre verranno assolti dalle accuse mosse nei loro confronti.
Depistaggi e sospetti
I depistaggi continuano. Il rettore e il prorettore denunciano di aver ricevuto messaggi di morte, mentre il segretario generale dell’Ateneo trova la sua auto perforata da cinque colpi di pistola. Diego Cuzzocrea, nonostante gli attacchi della commissione antimafia, si ricandida a rettore: il 4 maggio è eletto al primo turno. Ma il 10 giugno è costretto ad autosospendersi: è accusato, col fratello e il cognato, di aver simulato il furto della propria auto e le lettere minatorie. Dopo 4 giorni è il momento delle dimissioni. Lo fa per evitare la sospensione cautelare chiesta al gip dal pm Marino.
Nel frattempo proseguono le indagini sull’omicidio del prof. Matteo Bottari. Nel giugno 1998 i sospetti cadono sul prof. Giuseppe Longo, gastroenterologo collega della vittima. È “formalmente sospettato” di aver commissionato l’omicidio a causa di dissidi relativi alla ristrutturazione di un padiglione del Policlinico. Scagionato e mai accusato ufficialmente, muore la sera di sabato 20 luglio 2013, a 64 anni. Originario di Mandanici, si è suicidato nella sua villa estiva di Mortelle, sul litorale nord di Messina. Secondo quanto accertato dall’autopsia, si è iniettato in vena due fiale di cloruro di potassio mentre sul divano del salotto guardava un film di Totò.
Delitto Matteo Bottari, un caso irrisolto
Dopo oltre due decenni di piste sbagliate, mezze verità mai confermate ed errori investigativi, ancora oggi il delitto Bottari è un caso irrisolto. Di cui non si conoscono movente, mandanti ed esecutori. Alla sua memoria l’Università di Messina ha dedicato una targa alla Casa dello Studente di via Cesare Battisti e intitolato il Palacongressi dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Gaetano Martino.
Messina, mafia e “rito peloritano”
Se dei motivi e dei protagonisti della morte di Matteo Bottari non si sa ancora nulla, qualcosa invece si è scoperto della parte criminale di Messina. Dove la mafia c’è. Potente e collegata con settori economici e con la politica.
Poche famiglie ma con molti collegamenti (attraverso famigliari, amici o sodali) dentro i palazzi del potere e nella magistratura. Il sistema istituzionale asservito alle esigenze e agli interessi della mafia. Non a caso è proprio a Messina che nasce la locuzione “rito peloritano”. Il termine è usato nel gergo di Cosa nostra per indicare la comunione d’intenti tra organizzazioni mafiose, istituzioni e magistratura. Una commistione di interessi tra poteri contrapposti, che ufficialmente dovrebbero essere in contrasto tra loro, ma che nella realtà dei fatti collaborano per raggiungere uno scopo ben preciso o semplicemente per mantenere lo status quo e il loro potere. Molto più semplicemente si parla di “rito peloritano” quando giudice, pm, avvocato e persino imputato sono “amici” o “alleati” tra loro, rendendo di fatto qualunque processo li veda protagonisti una farsa.
La latitanza dorata dei boss ricercati
Un marcio diffuso, una palude grigia. In cui la mafia ha trovato accordi con esponenti politici, ha fatto amicizia con magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine per gestire indagini e processi. E garantire una latitanza dorata ai boss ricercati. Come accaduto per Nitto Santapaola, il padrino catanese che ha passato gran parte della propria clandestinità nella provincia messinese, nello specifico a Barcellona Pozzo di Gotto.
Lo aveva scoperto anche il giornalista Beppe Alfano, ucciso l’8 gennaio 1993 a pochi metri dalla sua abitazione. Viveva in via Trento, al civico 42, con la moglie e i tre figli. Santapaola aveva uno dei suoi rifugi al numero 75, a trenta metri da casa Alfano. Sulle sue tracce c’erano i carabinieri del Ros di Messina, la squadra del capitano Ultimo e lo SCO, il Servizio Centrale Operativo della polizia. In diverse occasioni gli investigatori erano stati sul punto di arrestarlo, ma per un soffio era sempre riuscito a sfuggire all’arresto. A Barcellona Nitto Santapaola, latitante dal 1982, era rimasto sino a fine aprile del’93. È stato arrestato poco dopo, il 18 maggio, nelle campagne di Mazzarrone (in provincia di Catania), in seguito ad alcune intercettazioni che ne avevano rivelato l’indirizzo del covo.
Al civico 75 di via Trento, anche il boss barcellonese Giuseppe Gullotti (condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio Alfano, ma il cui processo sarà revisionato) avrebbe trascorso parte della propria latitanza. Tra i carabinieri che lo hanno arrestato dopo un anno e mezzo di ricerche c’era pure Piero Campagna, fratello di Graziella, la 17enne uccisa a Villafranca Tirrena il 12 dicembre 1985 per aver trovato un’agenda che svelava la vera identità del boss Gerlando Alberti jr. Latitante proprio nel Messinese.
L’inabissamento e l’attesa
È una mafia strana quella di Messina e provincia. A volte si fonde con la buona società, a volte sembra un clan camorristico, altre assume i contorni di una cosca di tipo corleonese. Oggi sembrerebbe essersi inabissata, scegliendo e seguendo la linea comune a tutti i clan dopo la fase dell’emersione e la stagione delle stragi.
Intanto l’omicidio del prof. Matteo Bottari, dopo 23 anni, aspetta ancora giustizia e verità. Chissà se arriveranno mai.
Fonte immagine di copertina: tempostretto.it