Affinché una finestra aperta sia fiduciosa del panorama che verrà, è opportuna la conoscenza di quanto si nasconde dietro le ante coperte di polvere. Nessun passato è tanto remoto al punto di sparire dall’ultimo neurone sopravvissuto alle crepe del tempo. Scaduto, andato a male non lo sarà mai. C’è sempre una cellula ostinata che imperversa andando avanti e indietro con il residuo di una memoria mai stata archiviata.
“Quello che so di te” di Nadia Terranova
In “Quello che so di te” (Guanda) Nadia Terranova, scrittrice siciliana, tratta di un viaggio a ritroso nell’album psico-affettivo della sua famiglia. Nella città rasa al suolo dal terremoto del 1908, Messina promette al suo presente di ricostruire finestre di futuro dalle macerie confluite nelle elaborazioni rievocative dell’immane tragedia.
La scrittura come incantesimo
“Scrivere è creare un incantesimo: se lo scrivo, accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più. È cercare un varco tra le versioni di chi ti commenta, tra mia madre che legge i miei libri e li sconfessa: non è vero che accade così, te lo sei inventato, e mio marito che incalza: forza, inventalo meglio, inventalo di più… quando scrivo i suoi occhi cambiano trasformando a ogni pagina le poche cose che io so di lei, le molte cose che lei sa di me“.
Alla ricerca di Venera
Tre generazioni indietro a quella in dote a Nadia, scrittrice, moglie, madre, figlia, nipote, solcano la porta di un manicomio dove molti calendari fa Venera, la bisnonna, fu rinchiusa. Da questo momento la Terranova sarà archeologa dei frammenti scomposti della sua famiglia. Nessun camice bianco, nessun laboratorio saprà dare l’esito definitivo degli indizi raccolti nel processo di identificazione di una bisnonna smarrita in un crocevia di vuoti e silenzi con l’odore di muffa.
Paure ereditarie e maternità
È una penna di paura quella della Terranova, questa volta strettamente collegata alla mitologia di famiglia destinata alla formazione del suo romanzo pioniere di memorie. Ad anni di distanza il passo di Venera viene riesumato da una generazione interessata alla composizione ex novo di una famiglia offesa da vissuti fuorvianti. I giorni successivi al parto della scrittrice sono stati giudici di un tempo che da lì a poco sarebbe stato coinvolto in un ingorgo emozionale dal quale uscirne è praticamente impossibile.
Mandalari, il confine della mente
Il pensiero corre spedito verso il destino di quella bisnonna che nel marzo 1928, all’età di 38 anni, divenne matricola 12.283, conosciuta da tutti come “una da Mandalari“. Venera è stata ospite nell’ex ospedale psichiatrico Lorenzo Mandalari, questo il nome del fondatore neuropsichiatra nella città di Messina.
Venera incinta di una bimba fu vittima di una guerra psicologica quando, per colpa di una brutta caduta, perse la nuova vita che aveva in grembo. Venera non morì, la sua mente si decompose.
La memoria che non si spezza
Quando Nadia diventa madre, il legame di sangue si riconosce nel nodo indissolubile con la generazione che l’ha preceduta.
Da questo momento non potrà permettersi di inciampare nel filo spezzato della ragione che ha causato la grave lesione del senno di Venera. Quella macchia, la stessa, nel DNA in comune con la bisnonna, non deve assolutamente perseverare nella genetica dell’albero genealogico.
Il riflesso di ora e allora dovrà fare a meno di ripetere l’immagine che ha divorato il cuore di una madre. Non può, non deve. Nadia è una giovane ed è una coetanea superstite del terremoto che ha graziato un bicchiere di cristallo frantumando però l’equilibrio mentale di una donna mai madre. La notte le sorprende l’una accanto all’altra, due proiezioni di vita per due dimensioni diverse danno carezze di pace alla disperazione fluttuante nei cieli.
Venera e il sogno
“La incontro spesso in sogno, la mia bisnonna: una donna minuta e silenziosa sulla soglia di un manicomio che sarebbe diventato un esilio, un luogo di cui avrebbe parlato con un distacco sempre più irreale fino a non nominarlo più, come accade ai ricordi che abbiamo sciupato. Il nome con cui la chiamo è Venera, l’accento sulla prima sillaba e la a finale, come una dea o un pianeta che hanno deciso di barare e cambiare le carte sulla tavola“.
“Quello che so di te” di Nadia Terranova: dolore e rivelazione
“Quello che so di te” mi basta per non chiederti se la misura del dolore sia stata sarta dei silenzi imbastiti con lacrime credute espressioni di un folle regime.
L’antenata si avvicina alla foglia dello stesso ramo e la raggiunge sulla soglia di un cammino illuminato dalla misericordia celeste. Ancora una volta la luce ha vinto le tenebre, da questo adesso a per sempre il cuore di un fantasma morirà più e più volte dietro le sbarre inviolabili del sogno. “Quello che so di te” dorme nella natura madre che ci ha volute grembo fertile di un nuovo cammino per le vie dei secoli che sono stati “casa”.
La testimonianza psico-familiare del romanzo finalista del Premio Strega 2025 libera tematiche sensibili al rimuginio di una collettività sorda al disagio mentale.
“Lasciateci libere di non farcela, né come madri né come artiste. Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace“.