TRAPANI – Sono stati assolti dalla Cassazione Ibrahim Bichara Tuani di 35 anni, originario del Senegal, e Ibrahim Amid, di 27 anni del Ghana. I due migranti dirottarono un peschereccio per non tornare in Libia, in quanto, nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento non poteva essere disposto ed eseguito.
Nel dicembre 2021 i giudici hanno assolto i due per la motivazione sopra indicata e la Suprema Corte ha annullato senza alcun rinvio la sentenza d’appello.
Il ministro dell’Interno di quel periodo, Matteo Salvini, aveva chiesto senza alcun successo di farli scendere dalla nave in manette, dopo alcuni giorni di sosta nel porto di Trapani. Le accuse mosse ai due erano di minacce, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver impedito l’8 luglio 2018 al comandante del rimorchiatore, che li aveva soccorsi in mare di riportarli in Libia.
L’assoluzione in primo grado è arrivata da parte del Tribunale di Trapani per non avere commesso il fatto. Poi la sentenza è stata ribaltata in Appello e ora la Cassazione mette il sigillo e assolve i due uomini evidenziando la mancanza di una “motivazione rafforzata” che giustificasse il capovolgimento della sentenza di primo grado.
La decisione della Corte d’appello di Palermo, secondo i giudici supremi “è silente sul perchè, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale di Trapani, le persone migranti non avessero il diritto di opporsi a quella situazione, di far valere i propri diritti fondamentali, di reagire difendendosi rispetto ad un respingimento che esponeva loro al rischio concreto di trattamenti inumani“.
La Cassazione dunque dice che “ciò che non è stato nè trattato, nè spiegato dalla Corte d’appello di Palermo è perchè le persone, che non avevano colluso alcunché con gli scafisti e con le organizzazioni criminali e che fino a quel momento non avevano manifestato nessun comportamento oppositivo, non potessero rivendicare i propri diritti fondamentali, ma dovessero restare fermi, inerti e accettare di tornare in Libia con il rischio di subire torture o comportamenti inumani“.
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