L’Italia è un paese per donne sportive?

Sarebbe più corretto affermare che l’Italia è, indubbiamente, un paese che ama lo sport. Lo dimostra l’altissima presenza di manifestazioni sportive che ogni anno vengono organizzate vuoi per sensibilizzare l’opinione pubblica su determinati temi, vuoi per una raccolta fondi, o soltanto per condividere una passione comune all’insegna del divertimento e di un po’ di sana competizione. È il caso, ad esempio, della Stramilano, l’evento podistico che si è svolto il 19 marzo scorso nella città meneghina in apertura della primavera. Una giornata di sport ma anche un momento di socializzazione che ha visto atleti professionisti e amatoriali, uomini delle istituzioni, come il catanese dott. Francesco Messina, oggi questore a Perugia, o Massimiliano Rosolini, e molti avvocati della Sicilia cimentarsi in 3 percorsi diversi: 10 chilometri per la canonica Stramilano, 5 chilometri per la Stramilanina e 21,097 chilometri per la più impegnativa Stramilano Half Marathon. Quest’ultima con partenza da Piazza Castello per le vie più caratteristiche del capoluogo lombardo, ha visto un record di presenze con oltre 7.000 runner, ai blocchi di partenza, italiani e internazionali, e soprattutto moltissime donne. A vincere il podio femminile è il Kenya, con Ruth Chepngetich (1h07’42”) ma anche una nostra atleta si è distinta, ottenendo un ottimo risultato: ha tenuto alta la bandiera tricolore, infatti, la ragusana Anna Incerti che ha tagliato il traguardo conquistando il quarto posto con un tempo di 1h12’35”.

Tante le atlete, dunque, e altrettanto numerose le vittorie eppure i professionisti sportivi sono solo uomini: le donne in Italia sono tutte dilettanti. Anche per nomi come Pellegrini, Pennetta e Cagnotto, non esistono tutele previdenziali o sanitarie, né è regolato e salvaguardato l’eventuale congedo materno. Rappresentano il nostro paese alle Olimpiadi, vincono medaglie, dominano le gare di nuoto, i tornei di tennis e primeggiano nella scherma: donne che hanno fatto dello sport la loro vita e la loro vittoria costante, eppure sono solo dilettanti. Nonostante gli allenamenti quotidiani, le gare internazionali e le medaglie, formalmente praticano tutte sport per hobby.

Sembra un paradosso ma non lo è! E la ragione di questa ingiustificata esclusione si rifà ad una legge del 1981, la numero 91, inizialmente destinata alla regolamentazione calcistica e poi estesa a tutti i tipi di sport. Sulla base di tale normativa, le federazioni sono libere di scegliere se aprire le porte al professionismo oppure no, seguendo le direttive stabilite dal Coni. Peccato che, in 35 anni, il Coni non è mai intervenuto sulla materia al fine di descrivere in maniera dettagliata quali fossero le prescrizioni da seguire e così le federazioni hanno fatto ostruzionismo. Attualmente, difatti, nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionistica, anche laddove il professionismo esiste, eccome. Le uniche federazioni sportive che prevedono il professionismo in Italia, ossia calcio, golf, pallacanestro e ciclismo, discriminano le donne riservando questo status solo ai colleghi uomini.

Ben si comprende l’importanza di un intervento normativo al riguardo, poiché l’essere professionisti o dilettanti in ambito sportivo non è solo una questione linguistica o un mero riconoscimento ma riguarda la concreta affermazione di una categoria lavorativa con tutti i diritti del caso. I professionisti firmano, com’è ovvio, contratti di lavoro con le società, hanno una tutela sanitaria, una assicurazione contro i rischi e regolari versamenti contributivi. I dilettanti, invece, non possono godere di nulla. Oltretutto, si calcola che i proventi delle donne sportive siano il 30% più bassi rispetto a quelli degli uomini, mascherati da rimborsi spese o assunzioni fittizie da parte di uno sponsor. E non essendo professioniste, i club non sono obbligati a depositare le scritture private firmate dalle atlete, aprendo anche la strada ai pagamenti in nero. Niente contributi, dunque, nessuna tutela previdenziale e, soprattutto, nessuna tutela infortunistica.

Emblematica la vicenda di una ciclista agonista che, a seguito di una caduta, rimase paralizzata. Ebbene, quell’episodio venne considerato esclusivamente un fatto personale e non un infortunio sul lavoro. Così come in caso di gravidanza, le atlete vengono spedite a casa senza alcuna tutela e senza percepire più alcuno stipendio, nonostante l’emanazione da parte del Coni di alcune statuizioni volte, perlomeno, a conservare il punteggio maturato nelle classifiche che non tutte le federazioni hanno recepito, a riprova dell’atteggiamento di chiusura e di disinteresse in tale campo.

E allora l’unico modo che hanno i dilettanti sportivi per tutelarsi, resta quello di entrare a far parte delle forze armate o di un corpo di polizia, onde garantirsi delle tutele e un lavoro sicuro a conclusione della carriera. La legge 86 del 15 aprile 2003 ha istituito, in proposito, il fondo “Giulio Onesti”, dal nome del primo presidente del Coni, che ogni anno assegna un vitalizio tra i 7 e i 17mila euro ad un massimo di cinque tra gli “sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico… qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico”.

Dal 2003, su 29 beneficiari solo due donne hanno ricevuto il sussidio: la ex cestista Nidia Pausich e la ex campionessa del mondo di tiro al piattello Bina Colomba Guiducci. In realtà, le proposte per una modifica della legge 81 esistono. Nel 2011, la ex fondista Manuela Di Centa, allora deputata del Pdl, tentò di creare una cassa previdenziale per garantire almeno la maternità alle sportive. Nel 2014, la deputata del Pd Laura Coccia, ex atleta paralimpica, presentò un disegno di modifica della legge 81 che restò in sospeso finché, all’inizio del 2016, venne abbinato alla proposta di legge Attaguile (dal nome dell’onorevole Angelo Attaguile). In Senato, invece, la vicepresidente Valeria Fedeli nel 2015 ha presentato il ddl AS 1996 che prevede l’inserimento della dicitura “atlete” nella definizione dei professionisti e il divieto di discriminazione da parte delle Federazioni sportive nazionali. Il ddl è stato assegnato nella commissione Istruzione pubblica e beni culturali del Senato, ma da allora non si è mosso più nulla.

Un altro disegno di legge, firmato dall’ex canoista olimpionica Josefa Idem con l’obiettivo di riequilibrare la situazione, è arenato al Senato da 2 anni. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad un problema di genere che nel ventunesimo secolo non è assolutamente accettabile. “Senza fondi diventa sempre più difficile avvicinare le ragazze alla pratica sportiva o impedire che fuggano all’estero. C’è chi fa centinaia di chilometri per allenarsi e chi per giocarsi uno scudetto deve chiedere le ferie e senza ottenere, poi, alcun riconoscimento contrattuale” spiega il direttore sportivo del Cuneo in serie A femminile. Certamente per le federazioni è più comodo scappare dal professionismo e continuare a trattare le sportive come dilettanti. Tuttavia, godere della protezione di un contratto e pagare i relativi contributi a favore di chi pratica sport per lavoro, deve valere per tutti e non può permettere discriminazioni sessuali. Non si tratta di uomini o donne ma semplicemente di diritti.

Avv. Elena Cassella del Foro di Catania