In questi giorni è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 92 del 22 novembre 2016 il bando di concorso per 800 posti di Assistente Giudiziario, area funzionale seconda, fascia economica F2, nei ruoli del personale del Ministero della giustizia – Amministrazione giudiziaria. Per potersi candidare, è necessario possedere i requisiti relativi ai concorsi pubblici (cittadinanza italiana, godimento dei diritti civili e politici, idoneità fisica) e il diploma di istruzione secondaria di secondo grado quinquennale, oppure titolo di studio superiore (ad es. laurea), riconosciuto ai sensi della normativa vigente. Ma cosa si intende per “diploma di scuola secondaria superiore”?
La Corte di Cassazione, sez. lavoro, con la recentissima sentenza n. 24460/2016 depositata il 30 novembre chiarisce questo dubbio. Il caso: una dipendente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti inquadrata C1 super si era vista riconoscere dal Tribunale di Trapani il diritto (negatogli dal datore di lavoro che le aveva contestato il titolo di studio posseduto) a partecipare al corso di riqualificazione per il passaggio alla posizione C2, indetto con il bando di selezione del 04 aprile 2001. In particolare, il Tribunale, premesso che il CCNL richiedeva come requisito di ammissione alla procedura di riqualificazione il possesso del diploma di scuola secondaria superiore, con sentenza n. 282 del 27 aprile 2007, riteneva l’illegittimità del bando di selezione nella parte in cui aveva prescritto il possesso del diploma di scuola superiore di durata di cinque anni, e previa disapplicazione dello stesso aveva ritenuto che il titolo di studio posseduto dalla lavoratrice (diploma di scuola magistrale della durata di tre anni) fosse idoneo a consentire la partecipazione al concorso in base alla normativa vigente. Il ministero proponeva ricorso che la Corte di Appello di Palermo rigettava con sentenza n. 763/2010. Soccombendo anche in secondo grado, il Ministero ricorreva per la cassazione della sentenza, asserendo che il corso di studi triennale frequentato dalla lavoratrice non era affatto equiparabile a quello di scuola secondaria superiore; esponeva il ministero che il Giudicante aveva interpretato in maniera errata le disposizioni del Testo unico in materia di istruzione (d.lgs 297/1994); in particolare, nel richiamare il testo dell’art. 191 della legge citata, la Corte di Appello aveva attribuito rilievo ai commi 1 e 2, secondo i quali rispettivamente “l’istruzione secondaria superiore comprende tutti i tipi di istituti e scuole immediatamente successivi alla scuola media; ad essi si accede con la licenza di scuola media”. “Sono istituti e scuole di istruzione secondaria superiore il ginnasio-liceo classico, gli istituti tecnici, il liceo artistico, l’istituto magistrale, la scuola magistrale, gli istituti professionali e gli istituti d’arte”, ma aveva trascurato quanto sancito dal comma 3 del medesimo art. 191, che riserva l’accesso agli studi universitari a chi abbia conseguito la maturità dopo un corso di studi di cinque anni.
Il ricorso è stato rigettato. Secondo la Corte di legittimità, i primi tre commi dell’art.191 definiscono gli istituti e le scuole che vanno ricomprese nella categoria dell’istruzione secondaria superiore. In questo elenco figura anche il titolo di studio posseduto dalla lavoratrice (un diploma di scuola magistrale) sebbene di durata inferiore (solo tre anni) rispetto a quella prevista dal terzo comma del summenzionato articolo che nomina corsi di almeno cinque anni. Nella specie, il bando richiedeva, come requisito di ammissione, il possesso di un “diploma di scuola secondaria superiore“. E, prosegue la Suprema Corte, visto che la declaratoria contrattuale di cui si sta trattando richiedeva il possesso del summenzionato titolo di studio, tale requisito era assolutamente soddisfatto dalla dipendente, proprio alla luce della disciplina del secondo comma dell’art 191. D’altronde, le Sezioni Unite della Cassazione si erano già pronunciate in tal senso a proposito di un caso molto simile (sentenza n. 26281/09).
La Corte di legittimità conclude dicendo che il bando faceva esclusivo riferimento al tipo del titolo di studio e taceva su quale dovesse esserne la durata, di talché, applicare l’interpretazione propugnata dal Ministero avrebbe portato all’imposizione di un’ulteriore condizione, non prevista e, quindi, non richiedibile al partecipante.
Come disse Totò “c’è chi può e chi non può”… partecipare al concorso: Tu puoi!
Avv. Claudia Cassella del foro di Catania