Non sono i “Mille giorni di te e di me” cantati da Claudio Baglioni. Sono i mille giorni, non uno in più, del governo Renzi. Il tempo di permanenza a Palazzo Chigi, scandito da un orologio che ha battuto il suo ultimo tocco all’apertura delle urne del referendum costituzionale. Una battaglia che Matteo Renzi ha voluto estremamente personalizzare e che alla fine lo ha travolto.
A dire “No” ad una riforma apparsa da subito pasticciata, forzata, raffazzonata per stessa ammissione anche di parecchi di coloro che predicavano il “Sì”, sono stati il 60% degli italiani. E ai seggi, questa volta, si sono recati in tanti, molti; come mai era accaduto per qualunque altro referendum. Tanto che alla fine il dato definitivo dell’affluenza alle urne in tutta Italia è stato del 68,48%.
La squadra di Renzi, così, non si può appellare nemmeno alla possibilità di una consultazione parziale. La sconfitta è sonorosissima e duplice: grande affluenza per esprimere la bocciatura e ben 20 punti percentuali di scarto. Solo tre regioni in tutto lo stivale (Emilia Romagna, Toscana e Trentino Alto Adige) sono andate in controtendenza. Per il resto, anche in quel nord d’Italia in cui il premier sperava di prendere punti è stata tutta una Waterloo.
In Sicilia, dove il Presidente del Consiglio negli ultimi mesi aveva fatto continuo pellegrinaggio sperando di ripristinare il terreno che – lo evidenziavano i sondaggi – gli stava crollando sotto i piedi, è stata proprio una débâcle. L’Isola è stata la capitale del “No” con oltre il 71% di porte chiuse in faccia al premier.
E, stavolta, non credo si possa parlare del terzo episodio dell’avanzamento del populismo, dopo Brexit e Trump. L’analisi della sconfitta di Renzi e della sua prospettata riforma costituzionale porta all’arroganza di un personaggio che ha voluto fare “All in“, convinto della sua forza di persuasione e della propria capacità comunicativa. Confidando su questo ha scommesso tutta la posta sul referendum ed alla fine, ovviamente, ha dovuto arrendersi.
Una resa, questo almeno lo si deve ammettere, in cui bisogna riconoscergli dignità. Si è addossato tutte le colpe della sconfitta referendaria e non ha esitato, intanto a parole, a dichiarare “la mia esperienza di governo è finita”. Difficile non credergli, stavolta, anche se alla mente tornano ancora alcuni suoi “passaggi e frasi” del tipo “Stai sereno Enrico…“. Stavolta gli italiani lo hanno giudicato, sì più lui che la riforma costituzionale presentata dal suo governo. Gli italiani che non lo avevano portato a Palazzo Chigi ma che adesso gli hanno detto chiaramente di fare le valigie.
Ed è impossibile che, nella giornata di oggi, i passi non siano proprio quelli anticipati da Renzi: riunione del Consiglio dei Ministri, nel primo pomeriggio, per i saluti ed i ringraziamenti di rito e, a seguire, la salita al Colle, al Quirinale, dove ad aspettarlo ci sarà il presidente Sergio Mattarella che dovrà prendere atto delle sue dimissioni.
L’Italia del post referendum, dunque, si risveglia con la stessa Costituzione e senza più un governo. E, adesso, si spera solo che il Presidente della Repubblica trovi subito il bandolo della matassa affinché si torni quanto prima alla stabilità politica. Ci sono, da subito, da approvare la legge di bilancio e da promulgare una degna e valida legge elettorale.
Non si può aspettare. Perché in quel caso sì che i mercati, la finanza, le banche e tutti quei poteri forti che oggi, con Renzi e la mancata riforma escono sconfitti, potrebbero davvero distruggerci.