Un lettore appassionato può cogliere la datazione dell’inchiostro già dalle prime righe sotto attenta e scrupolosa inquisizione. Un classico non passa inosservato all’occhio avvezzo a una consapevolezza letteraria che rivela la sua antica età. Questo conflitto temporale investe in pieno il romanzo di esordio di Carmen Verde “Una minima infelicità”, edito da Neri Pozza e inserito tra i dodici candidati al Premio Strega 2023.
La remissività portata in scena dai patemi del cuore è tipico degli scrittori chini sul foglio malamente illuminato da una candela. Quanti strazi nella solitudine di una camera spoglia di ogni bene materiale ma virtuosa di anime in tumulto. Ci sono vite destinate a lasciare la stessa traccia del serpente sulla roccia. L’infelicità striscia silenziosa alla ricerca della crepa adatta dove alleggerire l’angoscia in un liberatorio pianto.
Quella di Annetta è una tragedia consumata e mai curata dall’abbraccio materno allergico al profumo di una figlia. L’ombra confezionata sulle sue misure fa le veci dell’amica che non potrà mai tradire, perché si regge in piedi sulle gambe che non ha e proferisce parola da una bocca restia ad affidarsi a chiunque altro fuori da sé. Annette bambina, Annette giovanissima donna cresciuta in un corpo incompiuto, preso di mira dalla noia di appartenere al mondo dei limiti che l’ha voluta paladina di una minima infelicità.
Accanto, ma affettivamente assente, la madre di Annette non nasconde il disamore verso quella figlia minuta come un filo d’erba dimenticato sotto il sole a mezzogiorno.
“E io sapevo che mai, neppure in sogno si sarebbe voltata a guardarmi“.
Sofia Vivier, questo il suo nome, sembra voglia dare in pasto alla società borghese alla quale appartiene, tutto il disagio esistenziale per aver partorito un corpo risoluto a mantenere la stessa statura ad ogni scadenza del giorno. Quella lastra di ghiaccio materno instilla veleno nel corpo ossessionato di tutta una minima infelicità possibile per riscaldare l’anima nuda di ogni bene.
“Tutta la mia persona era perfettamente contenuta in quella di mia madre. Il mio piccolo corpo non era, in fondo, che una porzione del suo“.
Sofia è una donna bellissima, ingorda di vanità immune a quella figlia nata per colmare le lacune di una donna in miniatura, un disegno divino lasciato in sospeso per chissà quale improrogabile priorità.
Donne relegate a un secondo posto in credito con la dimensione affettiva apparentemente sazia, per non aggiungere crepe su crepe alla fragilità imposta da madre natura. Se amore non si muove, il corpo risponde malato di morte lenta. Se mancano le storie da ricordare, sarà vana la promessa al chiarore di una luna d’argento. A quel punto non è la miniatura degli arti l’infermità maggiore, ma la carezza dispersa in un angolo di cuore chiuso a chiave da uno stupido orgoglio. L’infelicità trova terreno fertile nei desideri inappagati, nei sogni addormentati nel letto sfatto quanto l’incubo che lo ha reso folle.
Il capriccio delle generazioni gioca sull’altalena degli opposti. Tanto mite l’una, tanto inquieta l’altra. Il vizio di una madre abbandona tutta la sua possente tenacia nella virtù morale della figlia. C’è anche un padre, Antonio, appendice di un matrimonio a una sola corsia col tappeto rosso fuoco quanto la sua donna, nè moglie nè madre.
L’album delle rimembranze scioglie il cuore nel ricordo di nonna Adelina Gentile, una figura di luce fioca sedotta dalla psiche fuori controllo. La chiamano follia il congedo generazionale confuso dall’alba al tramonto. Adelina madre fantasma, passa il testimone alla figlia Sofia, madre di una bambina di dieci anni stretta e costretta a una favola raccontata male.
“La follia della Nonna Adelina dominava la nostra famiglia. Era nelle infedeltà di mia madre, era nella cupezza di mio padre, era nel mio corpo minimo, contratto, che io stessa guardavo oramai con disgusto“.
La cronaca domestica denuncia le foto di famiglia quali testimonianze dirette di un tempo lasciato scorrere nell’apatia in comune attorno al tavolo. Ormai donna, Annetta si scopre indaffarata a sollevare la polvere dalla memoria troppo furba nell’occultare misfatti segreti della realtà.
Troppo grande è la pena di Sofia quando, coperta da una maschera di rabbia, dimentica la bussola direzionale sul letto di uomini molto più giovani di lei. Un corpo passivo tra le lenzuola sottomesse alla minima infelicità, troppo minima per essere fonte di forti emozioni.
Il confronto tra il tacco 12 della madre e la scarpetta innocente della figlia, fallisce ancor prima della prova ufficiale di un rapporto nato sì, ma senza vita. L’unica procedura di questa anomala relazione si palesa nel silenzio di due anime disgiunte per colpa di una miserabile superbia. Congenita o potenziata nel tempo, la separazione mette in letargo il volume di emozioni nell’angusto angolo di cuore.