La narrativa intinta nella fiaba è ambiziosa quanto la penna di uno scrittore predisposta alla meraviglia di chi leggerà l’afflato poetico.
Un genere così fatto scuote la penombra stretta e costretta a vivere di luce irreale. Un bambino, un dolore, un sogno.
Prima la storia, poi la fiaba, forse al contrario, poco importa se i piedi nudi saltano sull’erba, felici di respirare fresca rugiada. Con il romanzo “Un bene al mondo” di Andrea Bajani, finalista al Premio Strega e al Premio Campiello con “Il libro delle case”, la narrativa si erge sulle note della fiaba fino a dislocarsi nel mare magnum della metafora. Uno specchio di cielo sul mare aperto agli opposti, un possibile contagio tra un vivace azzurro e un quieto celeste, qui l’ago della bilancia dispensa equilibrio malato.
Un paesino in montagna, un bambino presente a se stesso ma separato dal suo piccolo mondo, la casa chioccia di nessuno nè tantomeno del piccolo uomo che di riparo ha tanto bisogno, che coperta per il freddo dell’anima non ha. L’infanzia corre veloce, lo tiene per mano, una. L’altra è proprietà acquisita del dolore che lo segue ovunque per le strade del paese, un’ombra invadente da cui disfarsi è impossibile.
Un giorno, lo stalker finto amico allenta la presa innanzi a un passaggio a livello. È necessario separare il dolore dal battito infelice, dare ascolto alla voce chiusa in gabbia. La tenera età lo spingerebbe al pianto, al grido nel nulla. Per lui, bambino in credito con il sorriso, non c’è posto migliore di un altro sè scoperto sulle labbra di una bambina sottile. Dall’altra parte della ferrovia, l’infanzia viene curata dalle ferite dolorose seppur invisibili, la medicina arriva nelle parole libere di darsi all’ascolto. Una vera manna per la malattia devota al silenzio sul contorno delle labbra.
Lei bambina, goccia di tenerezza, lo accoglie nel bosco imbottito a memoria dal dolore vagante. Sulle spalle, uno zainetto rosso infiltrato tra gli alberi troppo vecchi per ricordare segreti, nella lei bambina trova asilo dove svuotare le parole. Mai più sommerso nella palude ghiotta del fallimento senza colpa.
“La felicità, si diceva camminando sui suoi tappeti rossi e guardando fuori dalle finestre, era chiudere a chiave le cose belle che erano successe. Diventare grande con le cose che aveva vissuto, e poi non vivere più. Quando pensava, il bambino accarezzava il suo dolore e si sentiva finalmente felice. E tra tutte le cose, quella era la cosa più triste“.
Il bambino senza nome (lo scrittore glissa sulla definizione dell’essere umano per dare risalto all’impronta rilasciata dal suo passo), è un piccolo “lui” in movimento, mai da solo, tradito nel suo breve viaggio nel mondo dalla pena sul cuore. Un padre violento, una madre chiusa a riccio in un letargo depresso, una casa da cui evadere su richiamo di un altrove.
Prima tappa, il viale fitto di cipressi dove l’uomo riposa dietro una lastra di marmo. Sosta breve in quell’angolo di mondo utile per sfuggire al pericolo di scoprirsi vinti. La bambina calamita lo attrae ancora, l’unica ad avere il passaporto della gioia in difetto di fogli bianchi. “Nelle lettere che poi non spediva alla bambina, il bambino usava poche parole e le riempiva di virgole. Perché le virgole erano come il battito delle ciglia sugli occhi: facevano riposare un istante le cose dall’essere sempre guardate. E quello era il modo che il bambino aveva di prendersi cura del mondo”.
A questo punto la fiaba scende in campo allagando il filo pragmatico della storia. La tela bianca attira metafore munite del compito di alleggerire il fardello della crescita. Il bambino senza nome è personaggio principale di una storia scritta nel nome di generazioni su acque troppo salate per dissetare la dolcezza.
Si cresce in superficie per non decidere di osare nel volo a vuoto del sogno, nel battito accelerato verso un nuovo orizzonte nascosto in un comune zainetto rosso. Risulta impensabile un processo di crescita vuoto da un qualsiasi tenero abbraccio. Nessun bambino dovrebbe essere costretto a fare a meno del nutrimento allegato al primo debutto nel mondo. L’ ascolto.
Un battesimo laico parallelo alla parola che tutto comprende, non meno efficaci le pause mute per assorbire al meglio il beneficio del contatto. Quale bene al mondo risponde alle domande ancora in grembo? L’amore divulgatore di vita compiuta per cura di una voce.
“Per i bambini che siamo stati. E per quelli che, crescendo, siamo diventati”.