“Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa

Quando l’ultimo granello di cenere sarà polvere grigia in balía del vento, la vita ritroverà le radici là dove per sessant’anni sono state massacrate. Mentre uno stato muore, uno stato vive con il fucile sotto il cuscino. Condivide il letto con la morte e ogni mattina si sveglia per ricominciare a prendere la mira. La troverà nel cuore di un bambino, della madre, di un fratello in ginocchio nella terra contestata.

La storia ci costringe a rileggere la narrativa di Susan Abulhawa, l’attivista per i diritti umani di origine palestinese – americana nota nel complesso corridoio letterario per il suo romanzo “Ogni mattina a Jenin“. La prima pubblicazione risale nel 2006 con il titolo “The scar of David“, nel 2010 il libro fu riproposto al pubblico con il titolo “Morning in Jenin“, nel tempo fu tradotto in molte lingue che decretarono il successo internazionale.

La voce narrante appartiene ad Amal Abulheja, nipote del patriarca della famiglia Abulheja. Amalia è la donna protagonista del romanzo che per la prima volta la incontra nel 2002, quando da adulta e cittadina americana, scrive la storia riavvolgendo il nastro che l’ha promessa al mondo. Terza di tre figli, Amal nasce in un villaggio che a causa del conflitto politico Israelo- Palestinese del XX secolo divenne un campo profughi a Jenin.

“Faccia a faccia, guardammo l’una nei pensieri dell’altra, riconoscendo il terrore dell’altra e capimmo che avevamo superato un limite invisibile e senza possibilità di ritorno. Il mondo che conoscevamo non c’era più. In qualche modo, lo sapevamo. Piangemmo in silenzio e ci stringemmo tra le esili braccia.” La piccola età la salva da un coinvolgimento emotivo da cui difficilmente il tempo sarebbe stato cura efficace. Amal cresce con la madre Dalia alienata dal dolore per la perdita di Isma’il, il figlio rapito e cresciuto soldato israeliano.

Negli anni, il ricordo delle mattine a Jenin avrà il profumo di miele, tabacco e poesie tanto amate dal padre Hassan. “Il sorgere del sole apparteneva a me e papà, quando leggeva per me mentre il mondo tutt’attorno dormiva.” Amal cresce protetta dall’amore della sua famiglia nella costante attesa di ritornare ad aprire la porta di una vera casa, quella che l’odio inumano ha di certo sigillato per sempre. L’incubo sembra non finire mai, la preghiera soccorre ma non guarisce dal male che, se di buon cuore, ha condannato a una quasi morte il futuro che resta. Sono storie di un popolo vissuto nell’occupazione militare a contatto con una quotidianità assuefatta ad ogni forma di negazione.

Per Amal gli studi a Gerusalemme sono propiziatori di una borsa di studio negli Stati Uniti, dove riuscirà a far riposare la memoria dei giorni avari di luce. In terra americana Amal diventa Amy, due donne diverse se non addirittura opposte l’una dall’altra, la prima cittadina del mondo occidentale ha messo in stand-by le radici amare dei suoi giovani giorni, la seconda vive in un campo profughi dimenticato da quel dio miope del fiume di sangue in cui sta annegando l’umanità.

Il viaggio a ritroso nel tempo riporta Amy dove Amal è riuscita a sopravvivere alla guerra dell’uomo contro l’uomo. Adesso che la donna è diventata madre sente il dovere di lasciare alla figlia l’eredità della memoria sopraffatta dall’ ingiustizia. Come la madre, Amal si ritrova a fare i conti con i brividi tenuti a bada per proteggere quello che di più caro ha al mondo: una figlia. Quando la Palestina chiama, anche se ingombrato dal terrore, ogni figlio di quella terra risponde al comando senza esitare. “La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei”. Ad Amal è bastata una telefonata per ripiombare nell’odore acre dei fumi assassini, questa volta però le riporta un fratello creduto perduto per sempre. Isma’il, “cresciuto dall’altra parte del muro” ricompone un ultimo ritratto della famiglia strappata all’amore.

“Ogni mattina a Jenin” è romanzo ed è storia scritta nella memoria di un popolo invisibile al resto del mondo. Di ora in ora, il massacro aggiunge giorni in divisa da soldato obbediente al comando di eseguire una sentenza di morte. Nella lettura del romanzo emerge dalle righe una preghiera all’indirizzo dei sordi e dei ciechi di questo calvario senza fine e senza croce. Premurosa verso i suoi lettori è stata l’autrice, tanto da alleggerire il peso emotivo della scrittura con l’inclusione di immagini vellutate al fine di proporsi come contrasto all’orrore. Quattro generazioni di palestinesi sono state cristallizzate in una resurrezione non ancora compiuta da chissà quali essenze ultraterrene, fautrici di un nuovo cielo possibile.